La speranza … nel carcere


Don David Maria Riboldi : Cappellano Casa Circondariale Busto Arsizio e Fondatore della Cooperativa Sociale “La Valle di Ezechiele”


“A me piace pensare alla speranza come all’àncora che è sulla riva e noi con la corda stiamo lì, sicuri, perché la nostra speranza è come l’àncora sulla terraferma”    

Papa Francesco, Rebibbia, 26.12.2024

Così Papa Francesco, riaprendo le porte della Chiesa del Padre Nostro, nel complesso penitenziario di Rebibbia, a Roma. La Chiesa era chiusa da diversi anni per lavori. L’occasione l’ha resa nuovamente agibile e accogliente. Ed è poi un’immagine forte ‘aprire la porte’ in un carcere, perché il senso proprio dei penitenziari sta esattamente nella loro chiusura forzosa al mondo. Ultima forma di esecuzione delle pene che i tribunali vanno a comminare per sanzionare gli illeciti ed evitare l’arbitrio della ‘giustizia fai da te’. A questo, tra le altre cose, avrebbe da servire la pena: contenere. Non solo l’autore di reato, di cui si può ravvisare una certa ‘pericolosità sociale’. Contenere anche dalla libera esecuzione di intendimenti personali con cui reagire a un torto subito. Il male genera male. Il diritto penale vorrebbe sperare che il male della carcerazione possa invece generare il bene di una persona ‘redenta’, interiormente rinnovata e pronta a onorare nuovamente il patto sociale rientrando a pieno titolo nell’ordinaria collettività. 

Chiedo venia per questo attacco un po’ aereo. Ora proviamo a scendere coi piedi per terra. Ma, lo ribadisco: entrare in un carcere per spalancarne la porta, dichiarandola Santa, è di una potenza evocativa unica. Nonché scelta indicatrice di una strada da percorrere. Che i luoghi di detenzione e il mondo civile siano più permeabili è indubbiamente uno dei messaggi sigillati dal Santo Padre, lo scorso 26 dicembre a Rebibbia. Consapevole che l’attuale sistema penitenziario italiano è sostanzialmente fallimentare in merito alla propria finalità rieducativa: 7 persone su 10 vi rientrano, con una certa agilità. È una strada che molti hanno imparato a percorrere, quasi più di quella di casa propria. Alla domenica mattina, alla S. Messa, spesso mi trovo a iniziare, dopo il segno della croce, dando il ‘bentornato’… “Dì la verità: ti mancava la Messa in carcere, per questo sei rientrato!”. “No, mi mancavi tu, don”: così Alberto, qualche settimana fa. Sorridere non guasta mai, soprattutto laddove la disperazione raccoglie tanti adepti. Alla domenica allora, la S. Messa si vuole sia un tempo che fa ‘evadere’ dal grigiore bulimico dei giorni ‘dentro’: tutti uno uguale all’altro. 

La celebrazione della Messa è poi un tempo di Grazia. Il giorno dell’Epifania ci siamo chiesti quale dono ognuno avesse da portare a Gesù Bambino. Mi sono seduto anch’io in mezzo alle panche e siamo rimasti in silenzio, idealmente in coda ai magi, per lasciar risuonare quella domanda nell’animo di ognuno. Ci sarà qualcosa che posso donarti, Signore? È bello non dare sempre risposte e sentire l’eco del silenzio che le domande vere sanno generare. Sì, celebrare la Messa in carcere è esperienza di grande fecondità spirituale in me. Sono profondamente grato al Signore per avermi condotto qui. 

Ci sono poi alcune pagine di Vangelo che il contesto rende dirompenti, alla sola lettura. Leggevo Zaccheo, un paio d’anni fa. “Do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto”. Mentre leggo, incrocio gli occhi di Alessio. Un lampo, una lacrima. Pieno di droga era andato a rubare persino nell’oratorio in cui era cresciuto. Migliaia di euro di danni per qualche monetina nel cassetto del bar. Finisce la Messa: “Don, hai tempo per confessarmi?”. 

E ancora. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Noi la vediamo già la selva di uomini col sasso in anno e la bava alla bocca. La peccatrice colta in flagrante adulterio. Gesù scrive per terra. E poi è Lui che scaglia il sasso. Un irrituale silenzio accompagna il rumore delle pietre lasciate cadere dalle mani di uomini che, forse, non erano poi così entusiasti di uccidere e a cui Gesù fa un dono straordinario: consente loro di non diventare assassini. Non quella volta. E, amerei pensare, non più, da quella volta in poi. “Nessuno ti ha condannata?”. “Nessuno Signore”. “Neanch’io ti condanno. Va’ e non peccare più”. Guardate, è proprio difficile scandire queste parole appoggiandole su occhi immensamente bisognosi di sentirsi ‘non condannati’; avidi di un amore che spesso mai hanno ricevuto, cristallino e autentico; assetati, più che la samaritana, di un’acqua che non faccia più correre ai propri pozzi illusori. Gesù con un’unica parola salva questa donna da morte certa e salva questi ‘detentori della legge’ dal diventare degli omicidi. Gesù è il numero uno. Non ce n’è. 

Per Natale ho consegnato a ognuno un adesivo con il logo del Giubileo. Se avete visto qualche serie tv o se la vostra immaginazione vi consente di ‘entrare in galera’ con la fantasia, sentirete la bellezza agrodolce di questi adesivi appiccicati ovunque nelle celle. In compagnia di tante altre immagini, dai volti dei propri cari a quanto con cui si vorrebbe non dimenticare la propria virilità (il carcere di Busto Arsizio, ove opero, è maschile). Accostamenti dissonanti, ma curiosamente apprezzabili: dove ha da andare la speranza se non là dove serve? Dove bisogna mettere le stelle, se non nella notte più nera? E così, devo ammettere, sono proprio orgoglioso di aver tappezzato la galera di speranza. 

So di parlare a lettori che sanno cos’è la preghiera. Quando vado nelle parrocchie a parlare, chiedo sempre: “Quand’è l’ultima volta che avete detto una decina di rosario per le persone in carcere?”. Sguardi attoniti. Ecco, credo abbiamo proprio bisogno di un’inversione di tendenza. Il carcere è il posto dove di più in assoluto ci si toglie la vita. Il luogo in cui la disperazione sembra talvolta dominare incontrastata. Come diceva Madre Teresa: bisogna assaltare il cielo di preghiere. Sapete una cosa? Per entrare in carcere come volontari ci vogliono documenti, autorizzazioni, fogli di carta. La preghiera non ha bisogno di niente. Arriva. Passa oltre mura e sbarre. Una carezza a chi ne ha bisogno, per ricominciare a vivere, per non restare tormentato nel proprio passato, per poter sognare un domani in cui rendere onore ai talenti che Dio gli ha dato, facendoli fruttare nel bene. Ma dico: se non ci crediamo noi, chi? Vi prego… un’Ave Maria, ogni tanto, diciamola. Anche per i cappellani delle carceri, magari. Non guasta. 

Se qualcuno ha avuto il coraggio di arrivare fin qui, potrà sapere qualcosa anche di ciò che il Signore mi ha dato la Grazia di fare al di fuori del carcere. La Provvidenza mi ha donato di creare, con alcuni amici la Cooperativa Sociale “La Valle di Ezechiele”, ispirata la capitolo 37 dell’omonimo libro della Bibbia. La visione della vallata piena di ossa inaridite. “Potranno queste ossa rivivere?”. Quante volte mi sono fatto e mi faccio questa domanda, varcando i cancelli. “Signore mio, tu lo sai”. “Profetizza Ezechiele e queste ossa rivivranno”.

 La cooperativa ha avviato diverse attività lavorative in un capannone a pochi km dal carcere (Fagnano Olona). Ci occupiamo di digitalizzazione degli archivi cartacei, soprattutto per la pubblica amministrazione; creiamo database di archivi musicali, per i diritti di riproduzione musicale; assemblaggi di componenti meccaniche; cesti di Natale, con prodotti da cooperative che danno lavoro a persone ristrette negli istituti di tutto lo stivale; produciamo birra, la Prison Beer, che ha fatto rinascere Antonio a vita nuova (e la prima birra porta il suo nome). Ma, come amiamo dire, il nostro ‘core business’ sono le persone. Noi produciamo vite nuove. Qualcosa di meraviglioso. E davvero, bisogna dire che… ci riesce! O meglio: Gli riesce. In quattro anni, da che esistiamo, sono 30 le persone che abbiamo tirato fuori dal carcere, dando loro un lavoro. Di questi, una sola persona ha commesso nuovi reati. Funziona! Più delle patrie galere. Ecco perché il Papa ha aperto la porta (santa) del carcere. Questi progetti ‘rendono’ assai di più in termini di non ritorno a delinquere (‘recidiva’). Da Ministra della Giustizia, Marta Cartabia venne il 25.10.2021 a inaugurare la cooperativa e disse: “È sempre possibile quando c’è qualcuno che ti aspetta”. Noi vogliamo essere quell’avamposto di società che regala a una persona reclusa l’ebbrezza di sentirsi attesa. Benvoluta. Per ricominciare a vivere, a sognare, a sperare. 

Se volete conoscere un po’ di più la nostra realtà, potete andare sul nostro sito: lavallediezechiele.org. Se volete darci una mano… dateci lavoro! La birra la possiamo spedire in tutt’Italia e… quant’è bello brindare generando vita nuova? Seguiteci sui social o nella newsletter e restiamo in contatto. Per carità, si può anche inviare un’offerta… ma dare lavoro è sempre meglio. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Non dimentichiamolo!