Un nuovo modello di donna credente in un mondo che cambia
di Maria Cecilia Scaffardi*
E’ la prima volta che vengo ad un Convegno Nazionale, ma non è la prima volta che partecipo a momenti significativi dei Familiari del Clero. Certamente mi sento affine a questa spiritualità e a questa Associazione. Grazie di questa possibilità che, come sempre, dà l’occasione, lo stimolo per fermarsi e dire: dove sto andando? Anche riguardo ai servizi che mi sono stati dati in diocesi: che cosa esprimo? Quale modello di donna io esprimo attraverso questi servizi che potrebbero essere letti, e talvolta lo sono, come occasione di potere da parte di ‘una che conta’?
Grazie quindi non solo per questa comunione ma anche per questa sosta che mi ha un po’ obbligata a pensare e a condividere non tanto la lezione di una persona esperta ma un’esperienza di vita fatta alla luce del vangelo
E proprio questa sosta, questo fermarmi a riflettere ha suscitato in me altri motivi di gratitudine a tutte le persone che mi hanno aiutato in questo cammino, che mi hanno permesso di trafficare i miei talenti, che mi hanno dato fiducia e quindi in qualche modo hanno anche moltiplicato i pochi talenti che ho. Penso non solo alla mia famiglia ma anche alle persone della comunità cristiana, ai preti che mi hanno accompagnato coi quali ho condiviso, ai Vescovi che mi hanno dato fiducia. E in modo particolare vorrei dire grazie ad un Sacerdote che proprio quest’estate ha avuto un momento di difficoltà di salute col quale, nonostante questa fatica fisica, abbiamo condiviso la relazione, lo scambio. Assieme a questi motivi di gratitudine il tema mi ha certamente interrogato sul senso del mio servizio e su quanto io per prima e poi noi insieme siamo consapevoli di questi cambiamenti, di questa migrazione, di questo spostarci da una terra ferma, che tutto sommato anche se un po’ vecchia ci può dare ancora sicurezza, verso un nuovo che certamente apre alla speranza ma che può incutere timore.
E’ bello leggere il timore del nuovo non come paura ma come stupore di quello che il Signore ci sta preparando. Però questo cammino richiede consapevolezza: non si può andare all’arrembaggio.
E’ un nuovo che richiede anche da parte nostra una preparazione, una vigilanza.
Il filo rosso del mio intervento è proprio sul tema del cambiamento.
Mi sono fermata chiedendomi: “Quali sono i cambiamenti più significativi che poi incidono sul nostro modo di essere donne, di essere preti, di essere uomini; sul nostro modo di vivere la fede?”
Ho provato, con qualche pennellata, a descrivere alcuni di questi cambiamenti. Intanto la prima nota che mi viene in mente è che i cambiamenti sono velocissimi. E proprio per questo sono difficili da definire, da interpretare. Si diceva fino a qualche tempo fa che si era nell’era del post-moderno, per dire già la difficoltà di definire il nostro tempo. Ma non più di un mese fa leggevo l’articolo di un sociologo che diceva ‘è finito anche il post-moderno’ perché tutto quello che aveva messo in discussione e tentato di eliminare ora si era accorto che andava rivalutato; ci sono dei punti fermi che non possono essere annullati, non saranno mai superati. Non sappiamo ancora che nome daremo al tempo che stiamo iniziando; però l’affermare che non siamo più nel post-moderno significa che siamo già in un tempo nuovo e questo che ci disorienta.
Non per niente la nostra società è stata definita ‘liquida’, nel senso che sembra di afferrare un cambiamento, una novità, che già ti scivolano via. Non ti resta niente perché c’è un cambiamento successivo, cioè non si radica, non sedimenta, non crea tradizione. Per me questo è il primo dato: dire cambiamento significa dire qualcosa che non si definisce, che sfugge. Occorre dunque uno sguardo sempre ben aperto perché non è detto che quello che pensavamo un anno valga ancora oggi.
Un altro cambiamento di cui sentiamo parlare, ma non in modo approfondito, è certamente l’attuale crisi economico finanziaria. Noi sappiamo bene che questa crisi ha delle radici che non sono solo nell’economia, ma nel modo di vivere l’economia, l’etica. E’ una crisi che ci fa vedere la fragilità delle case che abbiamo costruito, che ci fa toccare con mano come la globalizzazione che ha di mira solo il bene di qualche gruppo e non di tutti, certamente non può andare avanti. Questa crisi quindi non la si può affrontare entrando in una logica solo mercantile e di scambio economico, bisogna entrare in un’altra logica.
Diceva Benedetto XVI: “Bisogna immettere la logica della gratuità perché la globalizzazione ci rende sì vicini, ma non ci rende fratelli”. Ecco allora che la crisi va risolta andando alle radici e non solo tamponando gli effetti che produce. La Chiesa ci dice che è necessaria una nuova sintesi umanistica cioè che rifaccia il senso dell’essere uomo e dell’essere donna. Il Papa ci ricorda che “la complessità e gravità dell’attuale situazione economica ci preoccupa ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e di scoperta dei valori di fondo su cui costruire un futuro migliore”. Se non partiamo da qui noi passeremo di crisi in crisi che non ci fanno crescere ma che ci annientano.
Quale altro cambiamento sentiamo e leggiamo, anche nel mondo dei giovani? Fino a qualche anno fa c’era un poco questo assunto: “penso dunque sono”. Sono un essere pensante che ragiono con la mia testa, dunque esisto. Ma oggi non vale più questa affermazione. Cosa ci sta dietro a molte scelte fatte da tanti giovani ma anche da tanti adulti? ‘Posso, dunque sono’! Posso fare, posso comprare, posso usare, posso consumare…dunque sono. Allora capite che c’è una concezione di vita molto diversa, dove viene eliminato il discorso del sacrificio perché non ha più senso costruire qualcosa con sacrificio. Io posso fare anche senza il sacrificio. Tutto quello che posso è lecito. Quindi è un po’ il tempo delle emozioni. Ciò che mi sento! Quante volte lo sentiamo dire anche nelle nostre parrocchie ‘mi sento di fare o non mi sento di fare!’ Quante volte questa è la risposta ad un impegno che noi chiediamo! Questa è la ‘categoria’ che vale nel nostro tempo. Un tempo gli uomini, le donne erano caratterizzati dall’essere pellegrini, persone in cammino ma con una mèta, che richiedeva sacrificio, però c’era una mèta che ti faceva accettare il sacrificio. La concezione odierna ci porta a sentirci ‘turisti’ che prendono il bello ma non si impegnano nel posto dove sono perché tanto vanno via! E si possono permettere di sciupare il posto che vanno a vedere, perché è un posto che a loro non appartiene.
In questi cambiamenti c’è anche l’influsso del cambiamento circa il sentire e il vivere il corpo. Siamo quasi all’idolatria del corpo. Allora il corpo deve essere sano, giovane, bello, facendo finta di non vedere che c’è il corpo che invecchia, che si ammala, che comunque ha dei limiti che fanno parte dell’essere creatura. Un corpo che è ancora usato come oggetto di scambio, di merce: vediamo tutta la contraddizione di tanti anni di femminismo, di lotta per non essere considerate donne ‘oggetto’ e poi sono le donne stesse ad accettare che il proprio corpo serva per avere un’immagine, per avere un posto di carriera, ecc. il corpo diventa anche oggetto di violenza: pensiamo a quante donne sono oggetto di violenza perché hanno rifiutato una relazione d’amore, un fidanzamento, ecc. Non c’è anche qui da ritrovare un modo nuovo di vivere il nostro corpo? Corpo che non è un accidente, un tabù, ma è l’espressione di ciò che noi siamo dentro: “tempio dello Spirito Santo”. Pensiamo a quanto c’è da lavorare con le giovani generazioni! I nostri adolescenti a quale valore del corpo li stiamo educando?
Noi siamo in un tempo in cui avviene questa contraddizione: si vivono tante relazioni (telefonini, internet…), si moltiplicano le relazioni, le distanze sembrano azzerate, tutto sembra vicino, tutto sembra a portata di mano, il lontano è diventato vicino ma, paradossalmente, il vicino è diventato lontano e inaccessibile perché oggi si comunica poco: in famiglia, tra la coppia, tra genitori e figli, non ci si conosce tra vicini di un condominio, ecc.
Allora cos’è che non va? Manca la relazione faccia a faccia. Forse qui c’è da fare una riflessione anche per la nostra pastorale: certamente deve servirsi dei mezzi della tecnologia, ma senza perdere il valore dell’incontro personale, a tu per tu. Guardando l’altro si impara anche a conoscere noi stessi.
Il sociologo Luigi Zoia commentando questo fenomeno dice: “Se nel secolo scorso Nice ha proclamato la morte di Dio, adesso assistiamo alla caduta di un secondo pilastro: la morte del prossimo”. La nostra società che si fondava idealmente su questi due pilastri, l’amore a Dio e l’amore al prossimo, ora sta cadendo perché stanno cadendo questi due pilastri. Se pensiamo che nella società antica era sacra l’ospitalità, adesso quando sentiamo degli sbarchi non pensiamo ad ospiti che vengono in cerca di un futuro migliore, ma li leggiamo come una sorta di invasione. Certo senza dimenticare tutti i problemi che questi arrivi comportano. Pensando poi alla multiculturalità, oggi siamo obbligati a confrontarci con chi è diverso da noi, con chi ha una religione diversa, con chi ha un modo diverso di relazionarsi con l’altro. L’altro che ci è capitato in massa ci spaventa, col rischio di avere reazioni di chiusura, senza invece cercare di cogliere quello che l’altro porta come ricchezza e che cosa possiamo mettere insieme.
Potremmo accennare anche ad altri cambiamenti ma mi fermo qua perché mi sembra che comunque questi siano già sufficienti per dire che sono cambiamenti che incidono, sia che siamo consapevoli o no, sul nostro modo, sul mio modo di essere donna, di pensare chi sono, ma anche sul mio modo di rapportarmi. Cambiamenti che incidono anche sul modo in cui si guarda la donna.
Come ogni cambiamento, i cambiamenti accennati portano delle contraddizioni: le sento soprattutto per noi donne.
Da una parte il desiderio di emancipazione, di liberazione, il raggiungimento di diritti sacrosanti, dall’altra l’essere soggette a nuove forme di schiavitù. Cioè la donna immagine (velina!). Dobbiamo riconoscere che questi cambiamenti corrono il rischio di farci deviare, di non tenerci radicati su radici vive, ma di franare in un terreno un po’ scivoloso.
Un altro rischio che vedo, ripeto soprattutto da parte nostra, da parte delle donne, è quello che si combatta contro il maschilismo, contro un modello maschile di società, a volte anche di Chiesa, ma il rischio è che da una parte lo si combatte e dall’altra lo si imiti. Cioè non stiamo portando una contestazione radicale del modello maschilista ma in qualche modo vogliamo semplicemente prendere il posto dell’uomo. Detto molto semplicemente: se c’è l’uomo al potere, al suo posto deve andare la donna. Ciò però non consente di superare il modello sbagliato perché non è l’uomo da solo che deve stare al ‘potere’, non è la donna da sola, ma semmai è insieme, secondo il pensiero della Genesi.
Il rischio è che, in questo percorso che porta la donna ad affermare se stessa, essa scivoli nei modelli che lei per prima contesta. Quindi non facciamo un servizio ne’ alla società, ne’ alla Chiesa e tanto meno a noi donne.
Proprio pensando a come è cambiato il modo di sentire il corpo, penso che la donna sempre più viva questo dilemma tra l’essere strumento di vita, grembo che genera vita, e grembo che genera morte (ad esempio le donne kamikaze, le donne della mafia…). La donna capisce che il suo corpo è uno spazio abitabile, ma ancora oscilla tra il farsi abitare dalla vita o dalla morte e quindi diventare strumento di vita o di morte. E’ importante essere consapevoli di quello che ci capita perché ‘se io non cambio il mondo è il mondo che cambia me’.
Questi cambiamenti hanno portato anche a vivere in modo nuovo la nostra fede. Sono cambiamenti che forse ci disorientano e fanno sentire un poco le nostre comunità estranee. Se pensiamo bene, dieci, vent’anni fa era la comunità cristiana che dettava il tempo alla città, al quartiere, al paese. Tutto era sintonizzato al suono delle campane che dava non solo il tempo, ma soprattutto il senso di quello che stava avvenendo: richiamava la realtà della morte, della festa, della domenica. Adesso si dice che i campanili sono diventati muti, non perché non suonino più le campane, ma perché non parlano più un linguaggio condiviso, perché quel rintocco delle campane semmai dà fastidio. Si dice che oggi il cristianesimo è divenuto estraneo alla nostra società, cioè non riesce più a dire la sua bontà, non riesce a far scoprire la sua bontà. E’ uscito un libro di un Sacerdote che parla dei giovani e dice che essi sono la prima generazione di increduli: non hanno avuto dalla generazione precedente il passaggio del testimone della fede.
Oggi noi siamo in questa situazione che non vuol dire che dobbiamo spaventarci, però dobbiamo prenderne atto perché non abbiamo a credere che le catechesi, le prediche che facciamo abbiano un riscontro immediato: c’è un analfabetismo religioso che impedisce di comprendere le cose che diciamo. O cerchiamo di cambiare qualcosa o sappiamo che non saremo capiti. Questo dato di fatto ci può portare a due atteggiamenti: da una parte la rassegnazione (parlo e chi mi vuol capire capisca!), oppure accogliere questa situazione come una sfida, come una occasione per rinnovare il nostro slancio per sentirci dei missionari, non solo a parole, in Italia.
Sono andata per flash: il mondo che cambia, cambia il modo di vivere la fede; cambia anche il modo di pensare la donna nella Chiesa?
Noi abbiamo la fortuna di avere alle spalle un lungo magistero che dal Vaticano II ad oggi ci ha dato un materiale di riflessione molto bello sul valore, sulla vocazione e sulla missione della donna a partire dal Concilio, in cui si è letta la presenza della donna come un segno dei tempi. Penso in particolare alla lettera alle donne di Giovanni Paolo II, alla Mulieris dignitatem, alla lettera ai Sacerdoti del 1995. Abbiamo questa ricchezza magisteriale a cui però forse non è ancora seguita una prassi ecclesiale. Quindi ci troviamo per questo tema come per altri, ad avere ancora una distanza tra le indicazioni del Magistero a quella che poi è la vita quotidiana, la realtà. E la realtà ci dice che le nostre comunità per la maggior parte sono fatte da donne: catechiste, donne impegnate nelle Caritas, donne che vanno a leggere durante la liturgia, donne che non assistono soltanto ma che partecipano attivamente con dei servizi. Ma che cosa lamentano le donne?
Una studiosa ha affermato che “agli uomini è affidata la missione, alle donne le commissioni”!
Per dire che ancora, forse, manca il coinvolgimento pieno delle donne anche negli ambiti dove si decidono le cose, nei luoghi di consultazione. Nell’ultimo libro di Michela Murgia ‘Ave Mery’ che parla di un incontro dal titolo ‘Donna e Chiesa, un risarcimento’ che fecero in un paesino della Sardegna nella giornata della donna (chiaramente il tema dell’incontro era stato un po’ criticato perché richiamava la Chiesa a prendere atto dell’esclusione della donna fatta nel tempo). Alla fine dell’incontro intervenne anche il parroco di questo paese dicendo: “E’ vero, ma le cose dette non valgono nella nostra comunità perché io coinvolgo molto le donne”. Ma nel silenzio dell’assemblea di quasi sole donne, si levò una voce che disse: “Sì a pulire la chiesa”.
Questa è un po’ la realtà, che non vuol dire che pulire la chiesa sia disonorevole, anzi è un servizio importante perché anche attraverso di esso si aiuta il prete nella sua situazione domestica e la casa comune che è la chiesa; ma se le donne vengono relegate solo a questi ruoli di servizi e non di servizio rischiamo di non permettere alla donna di esprimere tutta la ricchezza che il Signore le ha messo dentro. Rischiamo di imprigionare quello che Giovanni Paolo II, felicemente, definì il ‘genio femminile’.
Tutto ciò può essere dovuto al fatto che scontiamo ancora una devozione mariana che troppo spesso allontana Maria dalle donne normali; cioè mettiamo troppo Maria su un piedistallo con l’aureola e facciamo fatica a cogliere, come disse Paolo VI nella ‘Marialis cultus’ che “Maria è stata una donna che ha partecipato alle vicende del suo tempo, una donna libera che non si è fatta condizionare dalla mentalità del suo tempo, una donna forte, una donna che ha vissuto la maternità in modo oblativo, generoso”. Però, molto spesso la devozione che trasmettiamo rischia di non farci conoscere il volto autentico, evangelico di Maria. Questo rischia di non far cogliere agli uomini e alle donne quello che Maria dice a ciascuno di noi, come anche noi possiamo imitarla.
Facciamo però attenzione a non ridurre la questione della donna nella Chiesa a degli spazi da occupare, o sul perché la donna non può accedere al ministero ordinato. Io credo, ed è anche un invito che vi lancio, che sia giunto il momento di spostare l’attenzione dalla donna a tutto il popolo di Dio. Il problema della donna nella Chiesa è di tutto il laicato perché è un problema di non presa di coscienza della necessità di vivere il sacerdozio battesimale.
Il problema della donna c’è, ma va inserito in una questione più grande: quale Chiesa vogliamo costruire? Non una Chiesa dove ci siano delle donne che salgono sull’altare, non interessa che la donna vada accanto al prete sull’altare o metta una tonaca! Semmai la donna, avendo una sensibilità laicale deve aiutare il prete a scendere dall’altare per creare comunità, per evitare distanza, per creare dei ponti. Allora l’invito è di mettere ancora più attenzione sulla Chiesa: quale Chiesa, quale volto di Chiesa? Una Chiesa comunione dove preti e laici insieme si aiutano e servono il popolo di Dio, oppure una Chiesa di solo Clero, solo l’uomo?
Ho dato solo degli sprazzi.
Per avviarmi alla conclusione: anche a noi donne è chiesto di cambiare, che in termini cristiani vuol dire convertirsi. Anche se qui siamo in un luogo mariano per eccellenza, mi viene in mente anche la figura biblica di Maria di Magdala. Il primo giorno della settimana va al sepolcro (Gv 20). Di questo momento vissuto da Maria di Magdala colgo alcuni passi che possiamo fare anche nostri:
– Maria va di notte, è ancora buio. Anche per il nostro cammino, proprio per i cambiamenti che dicevamo, per questa migrazione che stiamo compiendo, è un cammino spesso fatto nell’oscurità che però va verso l’alba, verso la luce, quindi non è fine a se stesso. Noi dobbiamo essere capaci di camminare in questa oscurità, di attraversarla senza avere paura, di non fermarci perché è buio, perché non sappiamo che cosa fare. Bisogna avere l’ ostinazione di Maria di Magdala che vede il sepolcro vuoto, non capisce, va da Pietro e Giovanni ma poi torna, non fugge via, ritorna lì dove pensa che ci sia il suo Amato, dove spera di trovarlo. Ecco l’ostinazione che ci deve guidare, che non è la testardaggine ma è l’ostinazione della fedeltà, dell’amore.
– Maria di Magdala si sente chiamata per nome: vive un rapporto personale con il Signore, prima di tutto. Maria si volta indietro, cioè ha la capacità di cambiare: pensi di trovare il Signore in un modo ma accetti di cambiare; lasci andare un tuo modo di pensare e di vedere per essere disponibile al nuovo che ti si sta presentando. Questo voltarsi, per stare nel nostro tema, forse vuol dire che stiamo cambiando ma che ci è chiesto di accettare che è il Signore a chiederci di cambiare, attraverso le vicende di oggi. Accettare di conoscere il Signore in modo nuovo, nella fatica, di amare in modo nuovo, di servire in modo nuovo.
– Il mandato, nuovo, affidato proprio a lei, a Maria di Magdala: “va dai miei fratelli e dì loro…”. Non per niente Maria di Magdala è definita ‘Apostola degli Apostoli’. Cosa vuol dire ‘va’ dai miei fratelli!?’ Pensare alla comunità come una fraternità: il ruolo è secondario perché prevale il senso di comunione che ci affratella tutti. A Maria e ad ogni donna è affidato questo mandato che è l’annuncio di speranza, è l’annuncio fondamentale ‘va e dì’ che il Signore è risorto!
E Maria dirà: “Ho veduto il Signore”! Non dirà tante cose ma porterà la sua esperienza di vita, quindi è la sua vita che diventa un annuncio di speranza, di resurrezione. Prima di tutto per gli Apostoli!
Mi sembra bello leggere Maria di Magdala anche nella vocazione delle Familiari del Clero: la donna chiamata, attraverso questo percorso non facile, che passa attraverso l’oscurità, il sepolcro, la conversione, per annunciare con la propria vita, dare questa speranza all’apostolo che anche lui può esserne privo, può essere in crisi.
Abbiamo bisogno di avere una nuova consapevolezza di donne che implica anche un ripensamento dell’uomo e della società: non è una cosa che riguarda noi e basta. Nella misura in cui noi ci ripensiamo in modo nuovo, obblighiamo anche l’uomo, la società, la comunità cristiana a ripensarsi.
Non per niente il Papa nel documento “La vita consacrata” dice: “La nuova coscienza femminile aiuta anche gli uomini a rivedere i loro schemi mentali, il loro modo di autocomprendersi, di collocarsi nella storia e di interpretarla, di organizzare la loro vita sociale, politica ed economica, religiosa ed ecclesiale”. Ecco perchè c’è questa fatica: perché non si cambia da soli. Il cambiamento implica degli altri cambiamenti, ma possiamo trovare la resistenza di chi vuole rimanere così come è, di chi non vuole cambiare la comunità, di chi non vuole cambiare l’organizzazione. Ecco allora la pazienza e la fatica di stare dentro a questi cambiamenti; sapendo però che c’è un ‘centro’ da cui dobbiamo ripartire e che non dobbiamo perdere: Cristo. Allora noi non possiamo essere donne diverse, nuove, donne della speranza se non ripartiamo da Cristo. Un Cristo incontrato personalmente, ascoltato, pregato, un Cristo che diventa davvero il nostro ‘tu’, il primo nostro ‘tu’.
Un Cristo che come ha sanato, liberato Maria di Magdala, libera anche noi e ci aiuta prima di tutto a riconciliarci noi donne con noi stesse, col nostro corpo. Alcune teologhe dicono che lo specifico della donna si legge a partire dal corpo come spazio; pensate se noi aiutassimo la comunità cristiana ad imparare dal corpo della donna a diventare uno spazio accogliente, abitabile, dove non si è competitivi l’uno con l’altro, ma si aiuta l’altro a vivere nella cultura della reciprocità.
Secondo me la ‘categoria’ che dobbiamo riscoprire e a cui tener fede è la reciprocità, che vuol dire riconoscersi uguali nella comune umanità, vuol dire riconoscersi bisognosi l’uno dell’altro, vuol dire non sentirsi autosufficienti: né la donna né l’uomo, né il prete, né il laico, né la religiosa. Molto bello è stato il segno che ha dato il Papa nella messa conclusiva del Congresso Eucaristico ad Ancona: ha invitato nella cattedrale le coppie di sposi e i preti per dire: dovete mettervi insieme, avete una comune sorgente, dovete imparare a relazionarvi. Reciprocità vuol dire non appiattirsi, non voler essere uguale all’altro: la donna non deve diventare uguale all’uomo e l’uomo uguale alla donna ma vuol dire valorizzare, riconoscere la propria diversità per entrare in comunione secondo quel disegno originario di Dio che ha voluto l’uomo e la donna l’uno di fronte all’altro per servire e custodire il creato. In questa reciprocità la Chiesa diventa casa e scuola di comunione e la società diventa più umana.
Il Papa nella ‘Mulieris dignitatem’ dice che alla donna è affidato l’uomo ed è affidato tutto ciò che ha la sensibilità per l’umano che si sta perdendo. Questo è vero, ma è anche vero che la società diventerà più umana se ci sarà questa integrazione tra maschile e femminile; non se la donna da sola porterà avanti le cose. Ma la donna in forza di questo affidamento saprà mettersi nella giusta relazione con l’uomo e dall’essere insieme, sia nella vocazione matrimoniale che nella vocazione alla consacrazione, saranno in questo dialogo, in questa relazione di reciprocità? Ne avremmo tutti un vantaggio, altrimenti non solo la donna ne sarà ferita ma tutta la società ne subirà le conseguenze.
Per concludere vorrei leggervi un testo apocrifo che riporta il mandato a Maria di Magdala; non è un testo del vangelo però mi sembra molto bello e significativo. Vorrebbe essere l’augurio che faccio a me e a tutti voi per servire la Chiesa dove Lui vuole.
“Io non sono apparso a te finchè non ho visto le tue lacrime e il tuo dolore per me.
Getta via la tua tristezza e compi questo servizio, sii il mio messaggero per gli orfani smarriti.
Affrettati a gioire e va dagli undici.
Li troverai riuniti alla riva del Giordano. Il traditore li ha persuasi ad essere pescatori come prima e a gettare le loro reti con le quali conquistarono gli uomini alla vita.
Dì loro: ‘Su andiamo, vostro fratello vi chiama’.
Se disdegnano la mia fraternità, dì loro: ‘E’ il vostro maestro’.
Se trascurano la mia autorità di maestro, dì loro:’ E’ il vostro Signore’.
Usa ogni arte ed intelligenza finchè tu non abbia condotto il gregge al pastore.
Se vedrai che si sono turbati per te prendi Simon Pietro con te; digli:
Ricorda cosa ho detto tra te e me. Ricordati che cosa ho detto, tra te e me, sul Monte degli Olivi:
‘Io ho qualcosa da dire, ma non ho nessuno a cui dirlo!’.
‘Rabbi, mio maestro, io servirò il tuo comandamento nella gioia del mio cuore intero.
Non darò riposo al mio cuore, non darò sonno ai miei occhi.
Non darò riposo ai miei piedi finchè non abbia portato il gregge all’ovile”.
Gloria a Maria perchè ha obbedito al maestro.
Ella ha servito il suo comandamento nella gioia del suo cuore intero”.
(testo apocrifo in lingua copta del IV secolo)