Collaboratori Familiari del Clero in una Chiesa missionaria

 

Relazione di Mons. Ennio Apeciti

 

INTRODUZIONE

Mi sono domandato: come affrontare il tema assegnatomi? Come essere familiari del Clero in una Chiesa missionaria?

Il tema è quanto mai attuale, anche perché è la cifra stessa del pontificato di papa Francesco.

Non a caso, il primo capitolo della sua prima e fondamentale Esortazione Apostolica ,Evangelii gaudium (24 novembre 2013), si intitola: La trasformazione missionaria della Chiesa: «La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (n. 21).

E papa Francesco scandisce questa gioia missionaria con cinque verbi:

«Prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare». Sarebbe prezioso meditare tutto il paragrafo:

La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. [] la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. [] Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. [] Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia » (EG n. 24).

 

La dimensione missionaria–continua papa Francesco–è ormai «improrogabile»  e chiede il   rinnovamento dei cuori e delle strutture, perché divengano «tutte più missionarie» (EG n. 27).

Non sto qui a fare una sintesi dell’Evangelii gaudium, che sarebbe in ogni caso impossibile.

Basti il richiamo all’esigenza di essere Chiesa missionaria, una «Chiesa in uscita» (EG n. 46), come ama ripetere papa Francesco; «una Chiesa che deve

arrivare a tutti, senza eccezioni» (EG n. 48); una Chiesa che deve “uscire” per «offrire a tutti la vita di Gesù Cristo» (EG n. 49).

Proprio quest’ultima affermazione – partire offrendo Gesù – mi ha indicato il percorso che vi propongo, perché non credevo di dover fare qui una dotta conferenza, ma di riflettere con voi a partire dalle mie convinzioni.

Da Gesù occorre partire; dal Vangelo, voce che ci custodisce il volto del Signore e ci testimonia la fede dei nostri primi fratelli, quelli che cambiarono il mondo.

Partendo dal Vangelo si è cambiato il mondo. Partendo dal Vangelo sempre lo si cambierà.

 

ALLA SCUOLA DEL VANGELO

 

Il seguito femminile di Gesù

L’immagine evangelica che subito mi è balzata alla mente è quella custodita nel capitolo ottavo del Vangelo di Luca, subito dopo il perdono di Gesù alla peccatrice che si era accostata ai suoi piedi e gli aveva lavato i piedi e li aveva asciugati con i suoi capelli, ungendoli con olio profumato e lasciando allibito e sconcertato il fariseo che lo aveva invitato:

 

«In seguito (Gesù) se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8, 1- 3).

Sono versetti preziosi, perché introducono la grande parabola del seme gettato, che è la Parola di Dio, che germina nei cuori di chi ascolta, ma giunge a maturazione solo in chi «dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto», la custodisce con la sua perseveranza (Lc 8, 15).

Sono versetti preziosi, perché ci presentano la prima compagnia di Gesù; ci dicono che Gesù – e con lui i Dodici – poteva dedicarsi ad annunciare la Buona Novella, il Vangelo, perché insieme a loro (con loro in cammino e attente ai loro bisogni), c’era un gruppo di donne, che condividevano la loro vita, il loro ideale. Condividevano e sostenevano la missione di Gesù.

Sono versetti preziosi e scomodi, perché gli altri due sinottici, pur riprendendo il passo di Gesù che si mette in cammino per città e villaggi, non parlano di questo seguito femminile; tacciono sulle donne che si prendono cura di quel gruppo e lo rendono meno zingaresco e più ordinato, familiare.

Se – come pare – Luca è l’ultimo dei sinottici, significa che egli ha voluto scientemente colmare una lacuna, superare una mentalità diffusa a quel tempo, una mentalità che non era solo maschilista, ma anche classista: non era bene per un maestro ricordare esplicitamente che c’erano delle donne né un maestro perde tempo a tenere in considerazione i garzoni, gli operatori.

È stato alla luce di questo passo che ho sentito paradigmatico, che ho sviluppato la mia riflessione.

Luca ci parla di Gesù, di donne e di discepoli – anzi dei Dodici! – che seguono Gesù, lo accompagnano, lo sostengono.

Quando Gesù si siede a parlare con i Dodici, ci sono anche loro. Quando li esorta a ritirarsi un poco con lui per riposare (cfr. Mc 6, 31), ci sono anche loro. Quando i settantadue discepoli tornano «pieni di gioia» e Gesù esulta di gioia, perché il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli, ai semplici» (cfr. Lc 10, 17-22), ci sono anche loro, quelle donne.

Già qui mi nasceva una riflessione: queste familiari di Gesù mi insegnano l’umiltà, la discrezione. Operano per lui e per loro (i discepoli) senza altro desiderio che quello di permettere il loro apostolato.

Operano sapendo che non erano tenute in considerazione dalla società nella quale vivevano.

A loro bastava assistere Gesù e i suoi discepoli nel loro cammino. A loro interessava Gesù, la sua Comunità (potremmo dire: la Sua Chiesa) e interessava loro fare sul serio, collaborare non solo con le parole (che certamente dicevano) ma con la loro vita concreta.

Partiamo da Gesù

Forse per la mia formazione di storico, ho pensato che dovessimo partire dalle origini, dal Fondatore, da Gesù, che è in se stesso “Missione di Dio”.

Egli è l’Inviato, il Mandato. Così egli stesso si è presentato nel suo primo discorso nella sinagoga di Nazareth, secondo il Vangelo di Luca: «Mi ha mandato per annunziare» (Lc 4, 18).

Il suo è un annunzio preciso: «Ad annunciare un lieto messaggio ai poveri, la liberazione ai prigionieri, a ridare la vista ai ciechi e la libertà agli oppressi; a predicare l’anno di grazia del Signore» (cfr. Lc 4, 18-19).

Gesù è missionario di un annuncio non modificabile, perché non è il suo proprio annuncio, ma quello che il Padre stesso gli ha affidato, quel Padre che è una sola cosa con Lui e con lo Spirito Santo, per cui «se uno conosce Lui conosce anche il Padre» e lo vede: «Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre» (cfr. Gv 14, 9).

Quel Padre che lo ha mandato secondo un Suo preciso e divino progetto: «Dio ha mandato il suo Figlio nel mondo non per giudicarlo, ma perché si salvi per mezzo di lui» (cfr. Gv 3, 17); perché «la volontà di Colui che lo ha mandato, è che egli non perda nulla di quanto gli ha dato» (cfr. Gv 6, 39).

Dio è Amore e Misericordia

Lo ha mandato, infatti “per amore”, perché «Dio è amore» (1Gv 4, 8.16) e «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16).

Questa profonda verità è stata – non a caso – il sigillo di tutto il pontificato del mite Benedetto XVI: Deus caritas est (25 dicembre 2005), che commenta così:

«Queste parole esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: «Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto» (1Gv 4, 16). Abbiamo creduto all’amore di Dio — così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea,

bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1).

Le parole di Benedetto XVI sono parole preziose, perché ci ricordano due elementi essenziali anche per il nostro discorso.

Il primo: non si può parlare di missione, se non a partire da Colui che vogliamo annunciare.

E Colui che vogliamo annunciare ha detto ben chiaramente chi è, come vuole essere compreso dagli uomini: è il “Dio Amore”; il Dio «paziente e misericordioso, lento all’ira e grande nell’amore (o: ricco di grazia); buono verso tutti, la cui tenerezza si espande su tutte le creature» (Sl 144).

Quel volto di Dio misericordioso, cui papa Francesco ha dedicato l’Anno Santo e del quale egli stesso ci ha delineato il volto in una bella catechesi durante l’Udienza Generale di mercoledì 13 gennaio 2016 e che propongo in alcuni punti, secondo la mania dello storico di citare le sue fonti di pensiero:

«Nella Sacra Scrittura, il Signore è presentato come “Dio misericordioso”. È questo il suo nome, attraverso cui Egli ci rivela, per così dire, il suo volto e il suo cuore. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6). Anche in altri testi ritroviamo questa formula, con qualche variante, ma sempre l’insistenza è posta sulla misericordia e sull’amore di Dio che non si stanca mai di perdonare (cfr Gn 4,2; Gl 2,13; Sal 86,15; 103,8; 145,8; Ne 9,17). []

Il Signore è “misericordioso”: questa parola evoca un atteggiamento di tenerezza come quello di una madre nei confronti del figlio. Infatti, il termine ebraico usato dalla Bibbia fa pensare alle viscere o anche al grembo materno. Perciò, l’immagine che suggerisce è quella di un Dio che si commuove e si intenerisce per noi come una madre quando prende in braccio il suo bambino, desiderosa solo di amare, proteggere, aiutare, pronta a donare tutto, anche sé stessa. Questa è l’immagine che suggerisce questo termine. Un amore, dunque, che si può definire in senso buono “viscerale”.

Poi è scritto che il Signore è “pietoso”, nel senso che fa grazia, ha compassione e, nella sua grandezza, si china su chi è debole e povero, sempre pronto ad accogliere, a comprendere, a perdonare. È come  il padre  della parabola riportata dal Vangelo di Luca   (cfr Lc 15,11-32): un padre che non si chiude nel risentimento per l’abbandono del figlio minore, ma al contrario continua ad aspettarlo – lo ha generato – , e poi gli corre incontro e lo abbraccia, non gli lascia neppure finire la sua confessione – come se gli coprisse la bocca -, tanto è grande l’amore e la gioia per averlo ritrovato; e poi va anche a chiamare il figlio maggiore, che è sdegnato e non vuole far festa, il figlio che è rimasto sempre a casa ma vivendo come un servo più che come un figlio, e pure su di lui il padre si china, lo invita ad entrare, cerca di aprire il suo cuore all’amore, perché nessuno rimanga escluso dalla festa della misericordia. La misericordia è una festa!

Di questo Dio misericordioso è detto anche che è “lento all’ira”, letteralmente, “lungo di respiro”, cioè con il respiro ampio della

longanimità e della capacità di sopportare. Dio sa attendere, i suoi tempi non sono quelli impazienti degli uomini; Egli è come il saggio agricoltore che sa aspettare, lascia tempo al buon seme di crescere, malgrado la zizzania (cfr. Mt 13,24-30).

E infine, il Signore si proclama “grande nell’amore e nella fedeltà”. Com’è bella questa definizione di Dio! Qui c’è tutto. Perché Dio è grande e potente, ma questa grandezza e potenza si dispiegano nell’amarci, noi così piccoli, così incapaci. La parola “amore”, qui utilizzata, indica l’affetto, la grazia, la bontà. Non è l’amore da telenovela… È l’amore che fa il primo passo, che non dipende dai meriti umani ma da un’immensa gratuità. È la sollecitudine divina che niente può fermare, neppure il peccato, perché sa andare al di là del peccato, vincere il male e perdonarlo.

Una “fedeltà” senza limiti: ecco l’ultima parola della rivelazione di Dio a Mosè. La fedeltà di Dio non viene mai meno, perché il Signore è il Custode che, come dice il Salmo, non si addormenta ma vigila continuamente su di noi per portarci alla vita [] E questo Dio misericordioso è fedele nella sua misericordia e San Paolo dice una cosa bella: se tu non Gli sei fedele, Lui rimarrà fedele perché non può rinnegare se stesso. La fedeltà nella misericordia è proprio l’essere di Dio. E per questo Dio è totalmente e sempre affidabile. Una presenza solida e stabile. È questa la certezza della nostra fede».

È questo volto di Dio che dobbiamo avere davanti agli occhi del cuore, perché in questo   volto di Dio dobbiamo credere; questo volto di Dio dobbiamo annunciare.

«Ciò che Dio ha fatto è troppo grande per non essere raccontato»

Di qui il secondo elemento essenziale: non si può essere missionari, testimoni, se non di ciò che si vive, di ciò di cui si vive. Si può essere missionari solo di ciò che si è incontrato e che ha conquistato la nostra vita, anche se forse saremo sempre in cammino per conquistarla.

Vengono in mente le parole di don Bruno Maggioni, che trovavo spesso nelle immaginette per la prima messa dei giovani preti:

«Quando ti imbatti in una cosa bella, tu la racconti. Quando ti imbatti in una cosa vera tu la ridici. Se hai capito che lo spettacolo del crocifisso è come una folgore che ha illuminato il cammino del mondo e di ogni uomo, allora tu lo dici a tutti, non puoi farne a meno. E se lo spettacolo ha cambiato la tua esistenza dandole forza e direzione, allora inviti tutti gli amici allo spettacolo. … ciò che Dio ha fatto è troppo grande per non essere raccontato».

Ne consegue che l’essere missionari coinvolge la nostra vita, ci chiama alla conversione così come alla contemplazione: contemplo il volto di Dio e so che sono chiamato a farlo diventare il mio volto; so come agisce Dio e sono chiamato ad agire come Lui: «Imparate da me», ha detto il Signore Gesù e ci ha detto anche che cosa imparare da Lui, per essere come Lui: «Io sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 29).

Miti ed umili non per essere rinunciatari o tendenzialmente rassegnati e depressi, ma perché così saremo felici: «troverete ristoro» (Mt 11, 29), perché

«beati sono i poveri in spirito (= gli umili); di essi è il regno dei cieli»; «beati sono i miti, che erediteranno la terra (= diffonderanno il loro stile di vita, perché la mitezza vincerà, non mai la prepotenza!)» (cfr. Mt 5, 3.5).

«In lui e di lui viviamo»

Un terzo elemento incombe: noi non siamo missionari individualisticamente. Non lo siamo e non possiamo esserlo, perché siamo missionari del Signore Gesù. A lui apparteniamo: «In lui, infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo». È l’annuncio missionario di Paolo nell’areopago di Atene, che poi conclude: «Di lui

(di Dio) stirpe noi siamo» (cfr. At 17, 28).

E con ancora maggior forza – lo sappiamo – egli ci ricordò che «Cristo è il capo» (1Cor 11, 3) non nel senso del Duce, ma del caput, della testa: non ci può essere corpo senza testa né testa senza corpo; piuttosto corpo e testa sono un tutt’uno indivisibile. Gesù è il capo del Corpo del quale siamo membra, che «pur essendo molte, sono un corpo solo. Così anche Cristo. E in realtà, noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12, 12-13), compaginato dalla carità (cfr. 1Cor 13, 1-13), cioè dall’amore, ovvero da Dio stesso.

 

ALLA SCUOLA DEI PRIMI DISCEPOLI

 

Come custodirono l’insegnamento del Signore Gesù i primi nostri fratelli?

Dopo aver richiamato alla mente l’immagine paradigmatica delle pie donne – come si dice popolarmente – al seguito di Gesù, espressione di come i primi discepoli e lo stesso Gesù vissero la sua missione, mi sono domandato: ma come custodirono quel modello evangelico i primi nostri fratelli, la Comunità apostolica?

E di nuovo mi è venuto alla mente uno dei passi iniziali degli Atti degli Apostoli:

«Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e i fratelli di lui» (At, 1, 14).

Ritornano, dunque, anche qui quelle donne insieme alla Madre e ritorna quel clima familiare di unità e di comunione.

Non è un passo di poco conto, se solo ricordiamo che il momento era drammatico: gli apostoli erano in undici e, dunque, non corrispondevano al numero che li avrebbe fatti diventare il nuovo popolo di Dio.

La Chiesa non sarebbe potuta nascere con undici colonne. Occorreva la dodicesima, che sarebbe stato Mattia, ma per eleggerlo, occorreva che gli undici fossero abilitati; occorreva che fossero dodici i nomi, come dodici erano i nomi delle tribù d’Israele.

Ebbene, Maria è il dodicesimo nome! Il suo nome compare solo qui, poi scompare, perché ha compiuto il suo compito di garantire agli undici la regolarità della loro scelta, l’elezione del sostituto di Giuda, dell’altro, di cui aveva già parlato profeticamente Davide nel salmo 109 (v. 8).

Dunque, i primissimi passi della Chiesa sono custoditi da questo gruppo di «alcune donne» insieme a Maria, che sono «concordi» e fedeli (= assidui) nella preghiera.

Anche questo credo sia elemento da raccogliere: l’inizio della missione della Chiesa che da Gerusalemme raggiungerà tutto il mondo (Roma, ove giungono Pietro e Paolo, era simbolicamente tutto il mondo, era il caput mundi!); l’inizio della missione della Chiesa si fonda su «alcune donne» che fanno della preghiera assidua e concorde la loro stessa missione, il loro stesso impegno, il servizio fondamentale che esse faranno – con Maria – per gli apostoli sino ad arrivare a noi.

«Assidui nella preghiera»

Credo che non si possa essere missionari se non si custodisce questa dimensione assidua, quotidiana, della preghiera, una preghiera vissuta in unione di cuore, in comunità.

Penso all’importanza che può avere per una Comunità e per un prete e per la Chiesa tutta, la presenza di persone che, accanto ai ministri sacri, ai missionari per mandato, vivono la dimensione missionaria della preghiera e la vivono comunitariamente.

È diverso – in dimensione missionaria – pregare personalmente e individualmente e pregare comunitariamente fondendo il cuore nelle parole pregate.

Non a caso la seconda icona della Chiesa primitiva (At 2, 42-47) preciserà con insistenza che «erano assidui nella frazione del pane» (At 2, 42) e «ogni giorno spezzavano il pane» (At 2, 46).

Credo che questa quotidianità dell’eucaristia non vada trascurata. La forza missionaria e travolgente dei primi cristiani poggiò sulla celebrazione eucaristica quotidiana.

Fu quel «pane spezzato» che li rese audaci, entusiasti, capaci di coinvolgere, e di attrarre al Signore Gesù la gente del loro tempo, venata di scetticismo e di relativismo.

Non dimentichiamo la domanda scettica di Pilato a Gesù: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). Era la domanda non solo di Pilato, ma di un mondo – quello del bacino del Mediterraneo – che si avviava senza accorgersene al suo tramonto, essendosi svuotato del rispetto della dignità dell’uomo e avendo rifiutato ogni valore per fare spazio alla ricerca del piacere e del successo ad ogni costo, anche al prezzo di uccidere la propria madre, come fece Nerone.

Ebbene, i nostri primi fratelli risposero allo scetticismo sornione e ironico di Pilato e dei loro contemporanei prima di tutto con un quotidiano nutrimento di quel “Cibo” che solo può dare forza per un cammino lungo quanto è lunga la vita.

Forse i Familiari del Clero dovrebbero essere i primi interessati a custodire e a far custodire questo primato quotidiano del «corpo offerto in sacrificio per noi». Non c’è forma più sicura e feconda di apostolato e di missione che il celebrare l’eucaristia, pane spezzato e sangue versato «per noi e per tutti», come segno dell’eterna alleanza d’amore che Dio eternamente mantiene verso la Comunità dei Suoi figli e delle Sue figlie, l’Umanità intera.

«Un senso di timore»

Quello ruotante intorno al nome di Maria è – s’è detto – il primo cenno descrittivo della prima Comunità apostolica ed è particolarmente prezioso, anche perché è il primo di quattro (si ricordi la forte valenza simbolica del numero quattro!) negli Atti degli Apostoli (1, 14; 2, 42-47; 4, 32-35; 5, 12-16).

Ognuno dei quattro racconti ha qualche elemento prezioso per conoscere i fondamenti della Chiesa primitiva, che fu splendidamente missionaria.

Il secondo brano (At 2, 42-47) aggiunge che la Comunità era compaginata da

«un senso di timore», che va ben compreso.

Il «timore» di cui parlano gli Atti, il “timore di Dio” non è la “paura” di Dio, ma è il timore di offenderlo o, detto all’inverso, è il desiderio di non offenderLo, di non deluderLo, di farGli capire quanto lo amiamo. È il timore che nasce dall’amore o meglio: è l’amore che è tanto attento e desideroso di dimostrare e dare tutto l’amore, che temerebbe anche la minima ombra che possa non farlo risplendere.

C’era, dunque, quel desiderio attento di voler bene, che è prezioso e fu prezioso per i primi cristiani, e che passava per l’attenzione a non fare o dire alcunché potesse mettere a disagio l’altro, senza mai venire meno alla coraggiosa testimonianza del Signore.

Con questo senso attento di comunione la Comunità viveva intorno ai apostoli e li sosteneva nella loro «testimonianza della risurrezione del Signore Gesù».

Non si può essere Chiesa missionaria se manca l’attenzione – che diventa “timore” – verso l’altro, soprattutto verso colui – il presbitero – che è consacrato come “ministro della comunione”.

Essere pregiudizialmente attenti ad «ascoltare l’insegnamento dell’apostolo» (cfr. At 2, 42) e incoraggiare l’apostolo (= il presbitero) ad essere uomo di comunione è essenziale per una Comunità che voglia essere missionaria.

Come Familiari del Clero si è chiamati a costruire relazioni di comunione, di attenzione cordiale.

In primo luogo con quel ministro di comunione, con cui si vuole collaborare, che si vuole aiutare ad essere comunionale: quante volte l’esempio di una persona gentile e cordiale ci spinge a cercare – o almeno tentare – di essere cordiali e gentili anche noi.

Al contrario, l’asprezza genera asprezza. La critica genera divisione. La

lamentosità genera disprezzo.

«Simpatia di tutto il popolo»

La prima Comunità era una comunità che sapeva creare intorno a sé la

«simpatia di tutto il popolo» (At 2, 47). Era una Comunità cordiale verso il mondo che la circondava, anche se sappiamo che non era un mondo tendenzialmente favorevole. Eppure sapevano farsi voler bene. E doveva essere un punto di forza della Comunità primitiva, perché questo elemento – «godevano della simpatia di tutto il popolo» (At 2, 47) – lo ritroviamo (e in crescendo!) anche negli altri due affreschi della Comunità: «Godevano di grande simpatia» (At 4, 33); «tutto il popolo li esaltava» (At 5, 13).

«Un cuore solo e un’anima sola»

Il brano che delinea la prima Comunità cristiana continua: la «moltitudine di coloro che erano venuti alla fede era profondamente unita – «aveva un cuore solo e un’anima sola» – condivideva serenamente ogni cosa. E lo faceva «con letizia e semplicità di cuore» (At 2, 46).

Era una comunità gioiosa, lieta, cordiale. Ad essere precisi, questa “letizia” e cordiale “semplicità” si esprimeva intorno alla mensa.

È una dimensione che forse noi moderni abbiamo lasciato volatilizzare, presi come  siamo da mille  impegni, sempre  “connessi”, oberati da mille incarichi

responsabilità. Non c’è più tempo per cucinare e regna il “fast food”, il “pre– confezionato” e il pranzo ordinato via internet che ti viene portato in pochi minuti già pronto, per “risparmiare” tempo, e cucina.

La tavola era – dovrebbe essere – il tempo della gratuità, quel tempo – sia pur breve – di distensione che disintossica dalle molte “pre-occupazioni” e permette di guardare alle ore successive con rinnovata distensione, spesso favorita dal sorriso, dalla “letizia” di chi fa compagnia, seduto alla stessa mensa.

Non a caso accanto al proverbio latino: “Vae victis” (Guai ai vinti), si diffuse presto quello biblico: “Vae soli” (Guai a chi è solo): «Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi” (Qoèlet 4,9-10).

Quanto sia vera questa espressione del Qoèlet lo sperimentiamo ogni giorno. La stessa missionarietà della Chiesa riposa sulla comunità, sulla condivisione: Gesù non ha mandato in missione gli apostoli da soli, ma “in due”, perché la parola dell’uno fosse sorretta dalla testimonianza dell’altro e la testimonianza di vita fraterna testimoniasse nei fatti la verità delle parole.

Sarebbe ben strana forma di missionarietà – anzi ne garantirebbe il fallimento – quella che manca del sorriso rasserenante – e talvolta scusante – tra le persone che insieme camminano, che insieme perseguono lo stesso desiderio di diffondere il profumo dell’amore di Dio.

«Con grande forza»

Abbiamo detto che l’icona della Comunità primitiva è preziosa, perché essa esprime il volto paradigmatico della Chiesa e non a caso il brano ritorna per quattro volte. Sappiamo che la realtà fu più complessa, che non mancarono tensioni e fatiche tra i primi cristiani, basti pensare al contesto che condusse all’elezione dei sette diaconi (At 6, 1-6).

Proprio il ritorno per quattro volte dell’icona paradigmatica ci attesta che anche i nostri primi fratelli erano coscienti della fatica vera nel vivere in quel modo, ma non rinunciarono mai – né mai vollero – arrendersi.

Piuttosto cercarono di custodire quel modello che non era solo ideale, ma vero

anche se sempre in cammino.

I nostri fratelli credevano che era possibile volersi bene; che era possibile suscitare cordialità nella società complicata del loro tempo; che era possibile nutrirsi del Corpo del Signore.

Ciò che li animò in mezzo alle difficoltà del mondo e all’esperienza della loro stessa fatica nel vivere il Vangelo, fu la speranza che ci sarebbero riusciti; la speranza che il mondo avrebbe finito per crederci.

Certo occorreva tenacia; occorreva quella «grande forza» che animava gli apostoli nella loro «testimonianza» (At 4. 33), nel loro annunciare che Gesù era risorto.

 

ALLA SCUOLA DELL’APOSTOLO

 

Che la grande forza, la tenacia sia un elemento essenziale per una Chiesa missionaria, me lo conferma l’esempio, un poco autobiografico dell’Apostolo per eccellenza, di Paolo, in un passo autobiografico della Lettera ai Galati:

«Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato

da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani…» (Gal 1, 11-16a).

Sarebbe bello meditare questo brano proprio in vista della missionarietà. Paolo scrive queste parole, perché – lo ha confidato poco prima – egli è rimasto stupito dalla volatilità dei Galati: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo» (Gal 1, 6).

Egli, però, non è così. In lui c’era la certezza che solo in Gesù c’è la Verità e questo solo gli interessava: comunicare la Verità!:

«È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1, 10).

Il suo è stato un incontro personale con Gesù, quello di cui ci ha parlato

Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est.

Ciò che Dio ha trovato in Paolo

Ma c’è ancora una cosa da aggiungere. Paolo ripensa alla sua vita, al suo passato e confida (o si domanda) per quale motivo egli sia stato scelto dal Signore per esserne l’apostolo. Cosa ha trovato Dio in lui per chiamarlo?

Diventa prezioso, allora, continuare la lettura di Galati:

«Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 13-14).

Dunque, Paolo «perseguitava fieramente» (v. 13): non aveva mezze misure; non era e non fu uomo del compromesso; era convinto; era sempre stato uno convinto; metteva tutto se stesso in ciò che faceva; non teneva aperte uscite di sicurezza. Paolo era un uomo totale, che non conosceva i compromessi.

Credo ci serva, in quest’epoca venata di scarso impegno e di poca decisione, pervasa dal dodicesimo comandamento: «Non esageriamo!».

Essere apostoli si può, se si è totalmente coinvolti, decisi, appassionati. Non a caso Paolo afferma che «superava i suoi coetanei … era accanito» (v. 14).

Paolo è un uomo che non si è limitato al minimo, ma ha dato sempre il massimo; è un uomo che non si è fatto sconti, ma è stato sempre esigente con se stesso. Paolo credeva fermamente in quello che faceva e non risparmiava le sue forze, perché credeva.

Così, dunque, deve essere l’apostolo. E lo può essere solo se è convinto che ciò che fa vale la pena ed è vero. Paolo lo confessa: egli era «accanito nel

sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 14); aveva preso sul serio il suo mondo;

aveva preso sul serio l’educazione ricevuta e ciò che essa gli aveva consegnato.

L’apostolo può essere fecondo se non cade nella tentazione di ritenere che prima di lui hanno sempre sbagliato; se non cade nella tentazione di pensare che la storia passata (della quale è figlio e testimone e apostolo) è un cumulo di errori e di mediocrità; se crede che il passato (di cui è figlio) è ricco di cose belle, che occorre custodire e insieme rinnovare per il meglio.

Paolo aveva preso sul serio la tradizione su cui si fondava la sua (e nostra) fede. Paolo non era un relativista, un invincibile critico, un disfattista, … un pignolo…

Paolo ha creduto che la verità c’è: lui la vedeva secondo le categorie culturali del suo tempo, che dava importanza alla tradizione. E per questo fu pronto ad accogliere quella Verità, quel Signore, in cui aveva sempre creduto.

A proposito della Tradizione ho sempre amato un passo di Benedetto XVI:

«Tradizione non è la semplice trasmissione materiale di quanto fu donato all’inizio agli Apostoli, ma la presenza efficace del Signore Gesù, crocefisso e risorto, che accompagna e guida nello Spirito la comunità da lui radunata. […] In altre parole, la Tradizione è la continuità organica della Chiesa, Tempio santo di Dio Padre, eretto sul fondamento degli Apostoli e tenuto insieme dalla pietra angolare, Cristo, mediante l’azione vivificante dello Spirito […] Così, la Tradizione è la presenza permanente del Salvatore che viene a incontrarci, redimerci e santificarci nello Spirito mediante il ministero della sua Chiesa, a gloria del Padre» (Udienza Generale 26 aprile 2006).

Dio chiamò Paolo ad essere Suo apostolo, perché aveva trovato in lui proprio le condizioni per essere un buon apostolo.

Ci sono in noi le stesse condizioni per essere buoni apostoli?

Sempre in cammino con Dio

Dio non si fermò di fronte all’ostilità di Paolo per Suo Figlio Gesù: sapeva che

agiva per convinzione.

Dio non si fa mai condizionare dagli errori dei Suoi figli, quando vede nel loro cuore la sincerità e la convinzione di operare per ciò che è giusto.

È bello riflettere su come Paolo rilegge la sua vita, compresi i suoi errori e le sue resistenze: «Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani » (Gal 1, 15-16).

Paolo ha compreso – al momento della sua decisione per Gesù – che non si trattava di una “conversione”, di un “cambiamento” che doveva fare rispetto alla sua vita precedente sbagliata. Piuttosto tutta la sua vita – anche la persecuzione dei cristiani – era un cammino che Dio aveva seguito con tenace discrezione, per condurlo a quel momento; Dio lo aveva accompagnato anche nelle sue resistenze, anche nella sua persecuzione per quelli che adesso sarebbero stati per lui i suoi “fratelli”.

Forse vale anche per noi. Non dobbiamo mai vergognarci del nostro passato, ma piuttosto farne occasione di lode, di meditazione, per cogliere in tutti i nostri giorni della nostra vita la mano calda e fedele di Dio, il Suo sussurro discreto

nell’indicarci il cammino: il passato è sempre e solo luogo del Magnificat, della contemplazione delle grandi opere che Dio ha compiuto in ognuno di noi.

Non si può essere apostoli se non si sa guardare con questo sguardo positivo al passato.

Pensate come è prezioso per un prete avere accanto qualcuno che lo incoraggia, che lo aiuta a rendere grazie a Dio anche per i suoi cosiddetti “errori”. Non si riesce ad essere missionari se ci condiziona la scarsa stima di noi stessi, il ricordo di qualche passo mal fatto. Si può essere missionari, quando si sa che Dio non si stanca mai di alcuno dei suoi figli e figlie. E dunque, perché deve stancarsi l’apostolo? Il prete?

Chi collabora con un prete deve sempre iniettare questa fiducia, questa pazienza, questa serenità, di cui il mondo ha estremo bisogno.

Credo ci possano essere utili le parole della seconda enciclica di Benedetto XVI, Spe salvi (30 novembre 2007):

«Speranza è l’equivalente di fede. [] Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12). [] Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete «affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente [] Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 2).

Di questa speranza, di questa vita nuova è testimone, missionario il credente.

Questa speranza è chiamato a servire il prete.

Questa vita nuova rende il ministero missionario e rende missionario chi collabora con fede e amore a questo ministero che per sua natura è missionario.

 

ALLA SCUOLA DI PAOLO E FRANCESCO, E DI CARLO

 

Ritorniamo ora al punto da cui siamo partiti, a quella dimensione missionaria, per la quale papa Francesco non tanto ci chiama, ma ci incalza. Viene in mente il grido di Paolo: «Caritas Christi urget nos» (2Cor 5, 14), «L’amore di (e per) Cristo ci spinge, ci incalza, ci sprona».

Evangelii nuntiandi

A dire il vero, papa Francesco riconoscere esplicitamente di dipendere dal beato Paolo VI e in effetti anche nel titolo della sua Esortazione Apostolica, Evangelii gaudium, si rifà esplicitamente all’ultima e grandiosa Esortazione Apostolica di Paolo VI, Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), di cui vale la pena leggere il solenne incipit:

«L’impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo animati dalla speranza, ma, parimente, spesso travagliati dalla paura e dall’angoscia, è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità».

Paolo VI consegnava questo “servizio all’umanità” al termine del suo Anno Santo, come il Manifesto verso il futuro e papa Francesco lo rilancia come Manifesto per il nuovo futuro.

Sarebbe prezioso rileggere tutta l’Esortazione di papa Paolo:

«Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (EN n. 14).

Alla scuola di papa Paolo potremmo avere indicazioni provocanti e insieme affascinanti:

«(La Buona Novella) deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza. [] con tale testimonianza senza parole, i cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Novella» (EN n. 21).

Non sono parole che ci riguardano e ci impediscono di fare dotti discorsi, affollati convegni, ponderose pubblicazioni, mentre ci chiedono di parlare con la nostra vita, come accadde per i primi cristiani?

Paolo VI ci provoca con il suo messaggio, quando, parlando della “testimonianza” proclamò le parole giustamente famose:

«Per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio in una comunione che nulla deve interrompere, ma ugualmente donata al prossimo con uno zelo senza limiti, è il primo mezzo di evangelizzazione. “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”» (cfr. EN n. 41).

Come essere testimoni-maestri? Paolo VI lo esplicitò nella Evangelii nuntiandi: parlando degli «evangelizzatori» (n. 76), per i quali indicò cinque punti di confronto.

Occorre essere “testimoni autentici” (n. 76), “artefici di unità” (n. 77), “servitori della verità” (n. 78), “animati dall’amore” (n. 79), “col fervore dei santi” (n. 80).

È un programma preciso, che credo enormemente utile anche per noi:

«Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione. [] Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda» (n. 76).

«In quanto evangelizzatori, noi dobbiamo offrire ai fedeli di Cristo l’immagine non di uomini divisi e separati da litigi che non edificano affatto, ma di persone mature nella fede, capaci di ritrovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità. Sì, la sorte dell’evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità data dalla Chiesa. È questo un motivo di responsabilità» (n. 77).

«Il predicatore del Vangelo sarà dunque colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca sempre la verità che deve trasmettere agli altri. Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel ricercarla, per comodità o per paura. Non trascura di studiarla; la serve generosamente senza asservirla» (n. 78).

«Conserviamo il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa

– uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia del1e nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (n. 80).

Evangelii gaudium

Non sono parole che ci riguardano? Che ci provocano? Non sono le parole che papa Francesco ci ha rilanciato con la sua Evangelii gaudium?

Papa Francesco scende maggiormente nel concreto, come sappiamo ed elenca una serie di “no” e di “sì” che sono come quei cartelli che in montagna indicano il sentiero da percorrere, per giungere alla meta, per raggiungere la vetta dell’alta montagna:

Sì alla sfida di una spiritualità missionaria: «Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario» (n. 80);

Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo: «Non lasciamoci rubare la comunità!» (nn. 87-92);

No       all’accidia                         egoista:         «Non        lasciamoci          rubare          la         gioia

dell’evangelizzazione!» (nn. 81-83);

No al pessimismo sterile: «Non lasciamoci rubare la speranza!» (nn. 84- 86);

No alla mondanità spirituale: «Non lasciamoci rubare il Vangelo!» (nn. 93- 97);

No alla guerra tra di noi: «Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!» (nn. 98-101);

No alla rassegnazione di fronte alle molte sfide attuali: «Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!» (nn. 102-109).

Può sorgere istintiva la domanda: ma come posso io? Io alla mia età? Io nel posto in cui sono? Io con un incarico ben preciso, fatto di compagnia e di assistenza e di sostegno ad un prete? Come posso essere missionario o missionaria, se il mio impegno è quello piuttosto di sostenere l’azione missionaria del mio don, dei preti della mia comunità parrocchiale?

Papa Francesco sempre nella Evangelii gaudium ha scritto:

«C’è una forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti. È la predicazione informale che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario quando visita una casa» (EG n. 127).

Mi piace questo passo, perché è applicabile a chiunque: ognuno di noi, infatti, conversa, entra in casa, condivide parole e azioni.

Per i Collaboratori Familiari del Clero, in un certo senso, il primo riferimento missionario è quel prete con cui parliamo, con il quale operiamo.

Missionari per irradiazione

Papa Francesco ci indica uno stile: essere missionari per irradiazione. È un’espressione che ritrovai per la prima volta nella Lettera alla città di Milano del cardinale Carlo Maria Martini per il Giovedì Santo (28 marzo 1991) dal titolo (e dal contenuto) provocante: Alzati, va’ a Ninive, la grande città.

Il cardinale Martini individuava già allora una situazione intermedia di missione, quella «dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede».

Una situazione nella quale «gruppi di cristiani ferventi vivono accanto a cristiani tiepidi e a battezzati dimentichi quasi del loro battesimo».

Una situazione nella quale «la cura pastorale propriamente detta deve congiungersi con l’attività missionaria».

Una situazione «che caratterizza in particolare la grande città» e che chiedeva il coraggio di percorrere vie nuove, e forse antiche: «Sarebbe un errore caricare tutto il compito richiesto quasi soltanto sui preti e sui religiosi. Non potremo mai affrontare la nostra complessa situazione intermedia se non promuovendo l’azione pastorale e missionaria non solo dei preti, dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, ma anche dei laici, di moltissimi giovani e ragazze, uomini e donne».

Il cardinale Martini indicava alcuni “stili pastorali”, uno dei quali mi è sembrato profetico e da allora lo custodisco come misura e verifica del mio stesso stile missionario.

È lo stile di irradiazione e di accoglienza, che il cardinale descrive con provocante efficacia:

«Si tratta di dare alla vita intera della parrocchia, e in particolare ai momenti e luoghi in cui a essa possono accedere anche persone lontane o in ricerca, uno stile di attenzione alle persone e di ascolto, mettendo la gente a proprio agio. Militano contro questo stile ogni spigolosità, ogni diffidenza di fronte a gente «non nostra», ogni sbrigatività con cui si liquidano con poche battute domande poco pertinenti. C’è gente che accostando di rado le sacrestie, gli archivi e le segreterie parrocchiali, sente qualche imbarazzo verso un ambiente non usuale e ignora le competenze precise di persone o istituzioni. Ci vuol così poco ad accogliere con un sorriso, a dare una spiegazione con signorilità e garbo, a rettificare con calma un’informazione sbagliata. È importante soprattutto far vedere che ciascuno è accolto come persona, con la sua dignità intrinseca, inalienabile, che Gesù ci abilità a riconoscere e a valorizzare. La gente accetta poco volentieri i rimproveri da chi non conosce o non stima o da persone verso cui ha diffidenza solo un’amabile familiarità permetterà anche di fare le debite correzioni e precisazioni».

È lo stile che credo sintonico per chi ha fatto e vuole fare della sua vita un dono gratuito, un dono discreto per un fratello presbitero e per ciò stesso sacramentalmente missionario.

È lo stile che comporta una convinzione profonda, che chiede un animo roccioso, che chiede di avere lo stesso volto “fermo” di Gesù, quando decise di mettersi in cammino verso Gerusalemme, l’intraducibile «firmavit faciem suam» (Lc 9, 51).

 

CREDERCI DAVVERO

 

Per questo motivo desidero concludere con la stessa conclusione fatta dal cardinale Martini alla sua Lettera di invito ad andare in missione nella grande città di Ninive, nelle grandi città di oggi, ovunque ci siano uomini e donne che

«non distinguono la destra dalla sinistra» (Giona 4, 11); uomini e donne che Dio ama, nonostante lo sdegno di Giona (che è spesso quello di molti ben pensanti, di credenti che si pensano convinti):

«So che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato» (Giona 4, 2).

Il cardinale Martini riprese un passo del discorso tenuto da Giuseppe Dossetti il 1° ottobre 1987 in occasione del Congresso Eucaristico di Bologna.

Dossetti ad un certo punto ricordò la testimonianza di Yusuf ben al-Husayn, morto nel 917 e grande mistico musulmano

«Costui aveva ricevuto dal suo maestro l’ordine di predicare incessantemente. Ma, incompreso e osteggiato, non aveva più ascoltatori. Un giorno, entrando in una moschea per predicare, non vi trovò anima viva. Stava per andarsene quando una vecchietta gli gridò: «Yusuf, se gli uomini sono assenti, l’Altissimo, Lui, è ben presente. Benché non vi sia nessuno, insegna la parola di Allah!». E fu così che Yusuf predicò per cinquant’anni la parola, ci fossero o non ci fossero uditori».

Concluse Giuseppe Dossetti:

«E così deve essere tanto di più per la nostra Eucaristia: e allora, frequentante o no, la gente finirà col crederci che noi ci crediamo davvero e il mondo sarà salvo, per il mistero in sì e per la nostra fede in esso».

È l’augurio che faccio ad ognuno di voi ed a me: che la gente che ci accosta percepisca che noi ci crediamo davvero.