Collaboratori Familiari del Clero: laici corresponsabili con il prete

Relazione di Mons. Mario Delpini

  

  1. L’appartenenza prima del ruolo.

“Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della chiesa di Cencre: accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi: anch’ essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso. Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù … Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei

parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli …

Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. Salutate Apelle salutate quelli della casa di Aristobulo. Salutate Erodione, mio parente.

Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Perside. Salutate Rufo, prescelto dal Signore, e sua madre che è una madre anche per me. Salutate Salutate Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo “(Rom 16, l ss)

La vita cristiana si pratica in una dinamica di relazioni che hanno come principio “non la carne e il sangue”, ma la grazia di essere chiamati a far parte del popolo di Dio in cammino verso la terra promessa.

La “carne e il sangue” non sono un male, un ostacolo, ma sono l’eredità che invoca il Vangelo: essere parenti, essere amici, nutrire simpatia e affetto sono fattori che possono favorire l’incontro, la collaborazione, la condivisione, ma devono essere interpretati secondo lo Spirito di Gesù. Solo questa trasfigurazione può rendere tutto utile al Regno di Dio e preservare dalle degenerazioni di possessività, ambiguità, indebiti condizionamenti emotivi, affettivi, utilitaristici.

L’opera dello Spirito induce a convincersi e a praticare l’attitudine che pone l’appartenenza prima del ruolo: quello che è decisivo è far parte del popolo di Dio, più che decidere quale sia il mio compito; conta di più l’essere chiamati a condividere la missione, che la definizione dell’ incarico; dà un significato alla vita non l’occupare un posto ed esercitare un potere, ma l’essere presi a servizio per lavorare nella vigna del Signore.

Si può credere che, se si riuscisse a praticare questa precedenza dell’ appartenenza al ruolo, molti conflitti, frustrazioni, problematiche, depressioni, risentimenti sarebbero vinti da una gioia che rende lieta la vita e convince le persone interessate che possono aver stima di sé in qualsiasi situazione e condizione.

 

In che modo si può promuovere l’ Associazione Collaboratori Familiari del Clero avendo a cuore il volto di una Chiesa che si cura di tutti, anche dei suoi preti, per gli aspetti pastorali ma anche per gli aspetti domestici e che coinvolge tutti, uomini, donne, giovani, adulti, anziani?

Si può meglio chiarire l’identità del Collaboratore familiare del clero?

 

  1. La comunione ospita la pluralità dei doni.

“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (ICor 12,7)

La pluralità dei doni è per il bene comune. “Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma.

Dunque, non si dev’ essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti (. . .) Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili.” (EG 235).

Pertanto non si può chiamare carisma qualsiasi caratteristica o tratto della persona, ma solo quello che serve all’utilità comune. Anche le qualità più apprezzabili possono degenerare se invece che a servizio del bene della Chiesa e dell’annuncio del Regno sono poste a servizio della parte, dell’ individuo, del particolare. Diventano strumento di potere, pretesto per l’ esibizionismo, occasione per un interesse materiale.

 

Quale percorso formativo, quali tratti spirituali si devono privilegiare per chi vuole mettere i suoi doni a servizio della Chiesa nella forma specifica di Collaboratore familiare del clero? In che modo la figura di Maria può ispirare un cammino di santità per questa specifica dedizione/vocazione?

 

  1. La riforma del clero.

La trasformazione del contesto in cui vive la Chiesa sembra esigere una riforma del clero, non perché il clero non sia degno della sua vocazione, ma perché il clero è per la missione e la missione è per il mondo e, se il mondo cambia, sarà necessario domandarsi come deve cambiare la missione e coloro che ne sono protagonisti.

Il nucleo fondamentale della ” riforma del clero” si può identificare con il principio dell’ appartenenza al presbiterio: il prete non si può definire solo per il potere che ha ricevuto di celebrare, predicare, guidare, né solo per l’ incarico che gli è attribuito o per l’ambito in cui è inviato a esercitare il potere ricevuto (es: parroco di … ), deve piuttosto essere definito come collaboratore del Vescovo entro il presbiterio per la missione apostolica.

L’ appartenenza al presbiterio non sarà solo un dato teologico, come un principio astratto, ma dovrà comportare un esercizio coerente del ministero, quindi una pratica di sinodalità nelle decisioni, di fraternità evangelica nello stile, di segni persuasivi di condivisione della vita. Per esprimere la comunione non bastano i buoni sentimenti e le grandi celebrazioni, ma sono necessari i gesti ordinari dell’incontro, dell’ interessamento/aiuto reciproco, delle

procedure per le decisioni condivise, ecc.

 

Quali trasformazioni domestiche sono opportune/necessarie per un realistico percorso di “riforma del clero”?

 

  1. Collaboratori familiari del clero laici corresponsabili.

La collaborazione familiare alla vita del clero è una vocazione ad essere d’aiuto perché il presbiterio porti a compimento la sua vocazione: il benessere personale è funzionale alla sua santificazione, e non alla sua sistemazione.

Si possono trovare immagini evangeliche per descrivere le forme della collaborazione familiare che rendono il collaboratore corresponsabile della vita del presbitero nel presbiterio.

L ‘immagine della casa.

Nelle pagine del Vangelo sono ritratte diverse case. Ciascuna può diventare un segno che indica una tipologia delle forme della collaborazione familiare alla vita del prete.

La casa di Betania (cfr per es.  Gv 12, 1-3): è la casa amica, dove sono accolti Gesù e i suoi discepoli. I rapporti ordinari, nella loro complessità, sono però avvolti da un profumo di benevolenza: tutta la casa si riempì dell’ aroma di quel profumo (Gv 12,3). Maria di Betania si fa carico di custodire questa vocazione della casa alla confidenza,

alla distensione, all’accoglienza ben disposta.

La casa di Simone Fariseo (cfr Lc 7,36ss): è la casa che mentre ospita giudica, il pregiudizio rende indisponibili alla misericordia, l’antipatia corrompe l’ospitalità e mette a disagio l’ospite e crea un clima di tensione che scoraggia dal ritornare.

La casa di Zaccheo (cfr Lc 19, I-l O): è la casa della gioia per la vita nuova che inizia, per la salvezza offerta ai figli di Abramo. Una vita ritrovata, una generosità che risarcisce del male compiuto, una stima di sé che rende protagonisti di una storia diversa. Gesù, entrando in casa, trasfigura la vita di Zaccheo.

 

Ci si può domandare: di quale casa mi faccio responsabile/corresponsabile?

 

L ‘immagine della porta.

la porta che si apre quando qualcuno bussa (Lc Il,9): è la porta che ispira fiducia, quella porta che si apre senza sospetti preventivi, per quanto senza ingenuità. Chiunque bussi, trova una parola buona, una accoglienza sorridente, una indicazione precisa. Nessuno può risolvere tutti i problemi e soccorrere tutti i bisogni, ma ogni porta che si apre può restituire fiducia in una prossimità possibile.

La porta che non impedisce l’accesso allo spirito immondo (Quando un uomo forte, ben armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro: Lc Il ,2 1-26): è la porta della vigilanza, che sa intuire il pericolo, che impedisce che si insinui un nemico che può rendere l’ ultima condizione di quell’ uomo peggiore della prima (Lc

11 ,26). Può essere, infatti, che alla porta di una casa parrocchiale si presentino uomini e donne che invece di cercare un prete cercano una vittima, un ingenuo da rovinare, un debole da strumentalizzare. Il fare buona guardia non è la durezza che rende inaccessibile la casa, ma la sapienza che sa distinguere, sa consigliare, sa prendere i provvedimenti adatti al caso.

 

Ci si può domandare: di quale porta mi rendo responsabile?

 

L’immagine della mensa

la mensa del padre misericordioso (E cominciarono a far festa: Lc 15,25-32): l’ incontro festoso che celebra la riconciliazione è frutto dell’arte della misericordia. Il figlio perduto è accolto in casa non come un servo, ma come uno restituito alla sua condizione di figlio, come uno che è “a casa sua”. La fraternità spezzata sembra più difficile da ricostruire, rispetto alla disponibilità del padre misericordioso.

La mensa per le nozze del figlio del re (e la sala delle nozze si riempì di commensali Mt 22, I O): la mensa per le nozze del figlio è oggetto di cure, motivo di frustrazione (gli invitati non volevano venire: Mt 22,3), occasione di generosità, compagnia che richiede l’ abito nuziale (Mt 22, Il).

Ci si può domandare: di quale mensa mi faccio responsabile?

Siamo consapevoli che è chiesto ai Collaboratori familiari del clero di riempire di luce, di tenerezza, di generosità le relazioni che viviamo nelle case del presbitero? Come la commensalità quotidiana può diventare luogo di familiarità e di amicizia per costruire storie di comunione e di servizio?