Santità e fraternità ecumenica
Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Delegato vescovile per il dialogo interreligioso – Referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani
La Chiesa Cattolica riconosce e venera la santità di diversi fedeli delle Chiese ortodosse. Ricordando in particolare due santi russi, Sergio di Radonez e Stefano di Perm, attraverso le loro vite possiamo toccare con mano il cammino del Vangelo nella storia dei popoli dell’Europa orientale, e riconoscere come la comune fede in Cristo ci permetta di custodire la speranza della concordia e della pace anche in questo tempo di calvario.
Non credo sia una novità per alcuno di voi sapere che la gran parte dei santi dei primi secoli cristiani sono venerati congiuntamente sia nella Chiesa Cattolica che nelle Chiese orientali dei vari riti (bizantino, copto, siriaco, ecc.…). Dopotutto è logica conseguenza dello sviluppo storico della separazione fra le Chiese, una divisione che emerge gradualmente a partire dal VII secolo e conosce un momento particolarmente drammatico nelle scomuniche tra Roma e Costantinopoli del 1054. A questo punto, però, è bene ricordare la complessità dei rapporti fra Chiesa d’Occidente e Chiese d’Oriente, che non furono sempre conflittuali. Anche dopo il 1054 continuano ad esistere relazioni positive tra vescovi e metropoliti orientali ed occidentali, tanto che per alcuni storici è il sacco di Costantinopoli nella IV crociata del 1204 a costituire il vero punto di non ritorno. Altri studiosi, poi, osservano come il Patriarca di Costantinopoli e l’Imperatore bizantino fossero venuti in Italia per partecipare al Concilio di Firenze nel 1439, e come questo evento avesse visto la firma congiunta di un decreto di riconciliazione. Purtroppo, si trattava di un documento che approfittava della debolezza bizantina per far valere diritti e privilegi della sede romana, e nel 1484 il clero e i fedeli di Costantinopoli rigettarono ufficialmente quegli accordi. Fu a partire da questa data, molto più tarda di quanto normalmente si pensi, che le Chiese delle due sponde del Mediterraneo divennero estranee, e solo nel 1965 Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora di Costantinopoli riaprirono la via del dialogo ecumenico cancellando le reciproche scomuniche.
Diventa allora molto interessante notare come, in tempi recenti, la Chiesa Cattolica abbia accolto nella lista dei santi venerati durante l’anno alcune figure spirituali dell’Oriente cristiano, vissute dopo il famoso 1054. Si tratta di una dozzina di santi, tra i quali vorrei ricordare e approfondire con voi in particolare due uomini, che ebbero anche modo di incontrarsi: San Sergio di Radonez e Santo Stefano di Perm.
Si tratta di due monaci russi del 1300, che vissero e operarono nel centro e nel nord della Russia europea.
Sergio, il più anziano, era figlio di nobili decaduti, che avevano perso tutto durante le guerre del principe moscovita Ivan I e si erano ridotti a coltivare la terra assieme ai tre figli maschi. Il fratello maggiore di Sergio lasciò la casa per la vita monastica, e quando i genitori morirono poco dopo anche Sergio prese la stessa via. Convinse il fratello a unirsi a lui per fondare un piccolo eremo nel folto di una foresta, dove prese avvio il particolare stile contemplativo che ancora oggi prosegue secondo la regola di San Sergio. L’eremo divenne presto noto nella regione, ed altri giovani si unirono all’esperimento spirituale, portando Sergio a chiedere al Metropolita di Mosca e al Patriarca di Costantinopoli il permesso, subito accordato, per fondare un vero e proprio monastero. Esso esiste ancora oggi e porta il nome di “Santa Trinità di San Sergio”, ed è probabilmente il principale centro di cultura religiosa della Russia moderna. I discepoli di Sergio, inviati nelle grandi pianure russe per evangelizzare la popolazione, finirono col fondare in pochi decenni oltre 400 monasteri, una rete di vita religiosa che costituì la spina dorsale del rinascimento cristiano russo e fu determinante anche per la ristrutturazione economica e culturale di quelle terre. Le tradizioni su di lui ne fanno anche il primo santo russo ad avere ricevuto delle visioni della Vergine Maria, e se da un lato lo si ricorda per la sua pazienza e mitezza, dall’altro la storia gli riconosce un ruolo importante nelle vicende politiche che portarono il Principato di Mosca a raggiungere con successo l’indipendenza dal regno islamico dell’Orda d’Oro.
Stefano di Perm, per altro verso, crebbe alla scuola della cattedrale di Ustjug, ma la sua infanzia fu caratterizzata dalla questione etnica: sua madre apparteneva infatti al popolo siberiano dei Komi. Grande studioso, profondo conoscitore della lingua greca e traduttore di molti libri liturgici e di teologia dal greco al russo, Stefano visse la vita dello studioso e dell’eremita finché, per motivi non chiari, verso i quarant’anni chiese il permesso di lasciare tutto per recarsi nelle terre dei Komi come missionario. Non era il primo a tentare l’impresa di annunciare il Vangelo in quei luoghi, ma chi lo aveva preceduto aveva sempre ritenuto necessario imporre a quelle tribù la lingua e gli usi slavi o persino latini, in base alle origini dei missionari, incontrando ripetutamente il fallimento. Stefano, invece, imparò il linguaggio e le tradizioni locali, addirittura inventando il primo alfabeto scritto di quelle genti, per poter tradurre le Scritture e le preghiere in una forma comprensibile a tutti. Portò avanti un confronto serrato con gli sciamani locali, dibattendo con loro ed accettando gli inviti a prove di fede anche cruente, come gettarsi nell’acqua gelata o nel fuoco, guadagnandosi il rispetto della popolazione. Fu protagonista dell’alleanza fra le tribù Komi e il Principato di Mosca, coltivando assieme a San Sergio il sogno di una unità politica che garantisse pace e sicurezza, disinnescando i continui conflitti tribali e le periodiche razzie delle orde nomadi.
Questi due santi russi, vera espressione del patrimonio spirituale ortodosso, ci mostrano un approccio alla santità che ha elementi comuni con l’Occidente, e così pure alcune caratteristiche proprie. Tipica dell’antico mondo russo è la loro preoccupazione politica, ed il bisogno di individuare e sostenere la centralizzazione del potere in uno dei principati del tempo. Entrambi finirono con l’individuare Mosca come centro di unità politica, e furono determinanti nel portare la storia in questa direzione. Non lo fecero però per dare un qualche vantaggio a se stessi o alle proprie Chiese, ma in risposta alle continue tragedie che affrontavano quotidianamente nella vita delle persone a cui annunciavano Cristo. Le steppe russe furono infatti per molto tempo un terreno di contesa fra piccoli signori locali, piagate poi dalle periodiche calate delle orde nomadi ed impedite in qualsiasi forma di sviluppo dalle differenze linguistiche e culturali che alzavano muri e frammentavano il territorio. San Sergio e Santo Stefano presero sul serio i problemi politici, economici e sociali del proprio tempo e delle comunità umane che incontravano, applicando la carità evangelica in questi campi e riconoscendo che chi voglia annunciare la speranza cristiana deve anche farsi carico delle sfide più concrete e quotidiane, coniugando la fedeltà a Dio con la fedeltà all’uomo.
Purtroppo, non tutte le loro intuizioni sopravvissero nei secoli: l’etnia Komi non ha potuto sviluppare liberamente la propria cultura, finendo vittima di una forzata russificazione, mentre la tradizione monastica di San Sergio è ancora viva ma fatica a portare frutto nella Chiesa russa, dove al momento sembrano prevalere le preoccupazioni politiche su quelle spirituali.
La testimonianza di santità di questi due monaci ha però saputo attraversare i confini, raggiungere le comunità cattoliche orientali e di lì interrogare profondamente la Chiesa di Roma. Sebbene Sergio di Radonez e Stefano di Perm abbiano vissuto secoli dopo le scomuniche tra Oriente ed Occidente, e nella loro vita non abbiano mai avuto occasione di stabilire un contatto diretto con la Chiesa Cattolica Romana, anche noi cristiani d’Occidente siamo chiamati a prendere esempio dal loro approccio russo alla santità. Venerare questi santi ortodossi russi, le cui feste sono entrate nel martirologio romano, permette ai fedeli cattolici di ricordare cosa significhi davvero credere nel carattere universale della Chiesa, ed è occasione per esercitarsi nella stima e nella sana curiosità verso altre tradizioni cristiane, riconoscendone gli elementi originali che ci differenziano ed apprezzando gli esempi positivi che i santi di tutte le Chiese ci offrono.
Un esercizio fondamentale perché la nostra fede cristiana sia veramente cattolica, cioè capace di abbracciare la ricchezza spirituale di tutta la cristianità, e questo è tanto più necessario in questi anni, in cui le tensioni politiche e gli scontri militari stanno alzando di nuovo muri di incomprensione tra le Chiese. Imparando a vedere la parte migliore del nostro prossimo, come pure delle altre comunità cristiane, ci immunizziamo dal virus del pregiudizio e rafforziamo la nostra capacità di amare chi è diverso da noi e fare sano discernimento sia delle differenze che degli elementi che ci uniscono.
I Santi russi Sergio e Stefano sono così, oggi, più significativi che mai nella liturgia cattolica, occasione preziosa e da non perdere per sperimentare come la fede in Cristo sappia abbattere i muri e creare comunione nella diversità.