Incontriamo Rabi’a, una mistica musulmana
Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Delegato vescovile per il dialogo interreligioso – Referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani
Una testimonianza di epoca crociata ci introduce alle tradizioni sulla mistica di fede islamica Rabi’a. Attraverso alcune delle sue parole ed uno dei racconti sulla sua vita, scopriamo insieme questa donna straordinaria e misteriosa, che a distanza di secoli continua a suscitare domande interiori in chi la scopre, ed a provocare i credenti di varie religioni ad un serio esame della propria vita di fede.
Corrente l’anno 1250 e nella città fortificata di San Giovanni d’Acri, nel nord della Terra Santa, un frate domenicano chiamato Ivo il Bretone incontra un’anziana donna e scambia con lei qualche parola. Siamo nel pieno della crociata di San Luigi IX, una delle più drammatiche per il campo cristiano, flagellato dalla peste e dalla carestia, ed il frate è stato incaricato dal re francese di andare a parlamentare con alcuni ambasciatori del Sultano, dal momento che il religioso conosce la lingua araba. Eppure, quando qualche ora più tardi frate Ivo ritorna per fare il suo rapporto, appena possibile prende da parte il biografo di corte e tiene a raccontargli di quell’incontro e di ciò che quella donna aveva da dire. Arriva così fino a noi questo breve resoconto nella Storia della vita di San Luigi IX, scritta da Jean de Joinville, che mi permetto di tradurre per voi in lingua corrente:
«Il Frate, andandosene dalla residenza del Re agli alloggi degli ambasciatori del Sultano, trovò per via una donna molto anziana, che portava nella mano destra un braciere pieno di fuoco e nella sinistra un recipiente pieno d’acqua. Frate Ivo le domandò: “Donna, cosa vuoi fare con questo fuoco e con quest’acqua che porti?” Ella gli rispose che con fuoco voleva bruciare il paradiso, e con l’acqua voleva spegnere l’inferno, perché scomparissero entrambi. Il religioso le domandò perché mai dicesse parole simili. Ed ella gli rispose: “Perché non voglio che alcuno faccia mai del bene in questo mondo per avere il Paradiso come ricompensa, né che qualcuno si astenga dal peccare per timore del fuoco infernale. È bene invece che ognuno faccia queste cose per il pieno e perfetto amore che noi dobbiamo avere per il nostro Creatore e Signore Dio, che è il bene sovrano”».
Leggendo il resoconto della crociata, in cui frate Ivo compare altre volte sempre in veste di ambasciatore, e dove Joinville riporta molte ed importanti testimonianze sulla politica, la pratica militare, la cultura e la società degli stati crociati e dei regni islamici del tempo, questo piccolo dialogo appare come una parentesi inaspettata, che per un momento costringe frate Ivo e chi lo ascolta ad alzare gli occhi dalle tragedie della guerra e della peste per tornare a volgerli verso il cielo.
Ancora più sorprendente, agli occhi di uno studioso delle religioni, è constatare come queste parole in antico francese riprendano esattamente uno dei “detti di Rabi’a”, messo per iscritto per la prima volta proprio in quegli stessi anni dal sapiente islamico Sams-al-Din Aflaki, che conduceva i suoi studi poco più a nord di Acri, nella città turca di Konya.
Chi era Rabi’a? Una donna, probabilmente di origini arabe, che visse nella città irachena di Bassora intorno al 750, quindi ben cinque secoli prima di frate Ivo e di Aflaki. A quel tempo l’islam era ancora giovane, avendo alle spalle meno di duecento anni di storia, e dopo la creazione del primo grande impero dei Califfi la cultura, la società e anche la pratica religiosa dei musulmani stavano cambiando radicalmente in risposta alle nuove circostanze. Rabi’a, di umili origini, indigente e priva di cultura, finì schiava in casa di un ricco persiano dove era costretta a lavori pesanti, e dove venne anche molestata. In queste tragiche circostanze scoprì il dono della fede, unica fonte di conforto e di speranza, e non avendo altro modo si dedicò a digiuni e preghiere notturne, poiché di giorno non le era permesso di interrompere il lavoro. Infine il padrone notò questi comportamenti, ed ammirato dalla costanza della giovane le concesse la libertà.
Da quel momento ella si consacrò interamente alla preghiera ed alla meditazione, agendo in modo simile a molti profeti biblici, che con i propri comportamenti suscitavano stupore e domande. Rabi’a, pur non essendo una predicatrice, rispondeva volentieri alle domande che le erano poste e non esitava a interrogare a sua volte chi incontrava.
Ad esempio si racconta che una notte un ladro entrò in casa sua, ma non trovando nulla da rubare stava per andarsene quando Rabi’a, svegliatasi, lo trattenne con una curiosa constatazione: «Ehi tu! Se fossi furbo non te ne andresti senza niente”». Sorpreso, il ladro rispose di non aver trovato nulla di valore, al che lei lo invitò a fermarsi e pregare un poco insieme, così almeno non se ne sarebbe andato a mani vuote. Poi Rabi’a pregò così: «Mio Signore e mio Protettore, costui è venuto alla mia porta e non ha trovato nulla presso di me. Tu lo hai fatto fermare alla mia porta: non privarlo della tua grazia e della tua ricompensa». Il ladro si addolcì e si fermò a pregare, e finirono col pregare insieme tutta la notte, finché al mattino quello se ne andò pentito.
Racconti come questo fanno di Rabi’a una madre spirituale per molti musulmani e musulmane, che da circa tredici secoli si tramandano i suoi detti e i piccoli episodi della sua vita semplice. Per molti, anche nell’ambito degli studi accademici, lei è l’iniziatrice della mistica femminile nell’islam, ed i sufi la annoverano tra le protagoniste del risveglio spirituale del mondo islamico.
Oggi è impossibile dire come uno dei racconti sulla vita di Rabi’a sia finito nella biografia di San Luigi IX, ma è legittimo formulare delle ipotesi. Ad esempio potremmo pensare che frate Ivo abbia effettivamente incontrato una donna, anziana e dedita ad una vita di ascesi e preghiera, la quale conosceva le tradizioni orali su Rabi’a e aveva deciso di imitarla. Oppure lo stesso frate potrebbe aver sentito raccontare la vicenda e averla ripetuta al biografo di San Luigi, senza aver però compreso che si trattava di cose accadute secoli prima. E sarebbero possibili anche altre ipotesi, più o meno probabili.
Quello che invece è un fatto verificabile, è che il seme piantato dalla mistica musulmana Rabi’a ha attecchito e ha continuato a portare frutti a distanza di molte generazioni, passando di bocca in bocca da Bassora fino alle sponde del Mediterraneo, e venendo riconosciuto come qualcosa di buono anche da fedeli cristiani. Addirittura, nel prosieguo del racconto di frate Ivo, il religioso afferma che la donna gli parlò della morte e risurrezione di Cristo come segno dell’amore di Dio, un discorso che certamente nessun musulmano potrebbe condividere. Ciò significa che, secondo Ivo il Bretone, la donna che ripeteva i gesti e le parole di Rabi’a era cristiana, cosa ben possibile nel Medio Oriente crociato del 1200. Questo rafforzerebbe ulteriormente l’ipotesi che Rabi’a sia stata apprezzata come mistica e come esempio di fede anche da non musulmani.
Questa storia misteriosa e ricca di fascino mi è sembrata la più indicata per portare un primo esempio di come sia necessario, per un credente cattolico, aprirsi a riconoscere la santità anche oltre i confini visibili della Chiesa. Rabi’a, con la sua saggezza pragmatica, con la sua perseveranza nel credere anche nei momenti più bui, con la sua prontezza di parola ed il coraggio di compiere gesti inaspettati, ci costringe in qualche modo a fare esperienza di quanto scritto in Gv 3,8: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito che Dio è vicino ad ognuna delle sue creature ed intesse un dialogo intimo e misterioso in particolare con gli esseri umani. Se certamente il Battesimo contribuisce a far maturare un rapporto particolare con il Padre all’interno della comunità ecclesiale, dobbiamo sempre ricordare che nessuno esisterebbe se non fosse stato Dio stesso a volerlo creare, e che quindi il solo fatto di aver ricevuto da Lui il dono della vita forma una prima, fondamentale, relazione con il Creatore.
Affido dunque a voi lettori il nome di Rabi’a e questo primo, brevissimo approccio alla sua vita e alle sue parole, nella speranza che vogliate saperne di più. Non mancano le risorse on-line né le pubblicazioni reperibili in libreria, semplicemente cercando proprio il suo nome. Come credenti in Cristo abbiamo il compito di fare discernimento su tutto, di vagliare quello che è buono e farlo nostro, lasciandoci provocare anche dall’esperienza religiosa e mistica di chi ha praticato tradizioni diverse. Rabi’a non ha mai riconosciuto in Dio il Padre di Gesù Cristo, ma ha fatto esperienza di altri aspetti della relazione con il Creatore, ed in quelli può essere compagna di viaggio anche per chi cammina sulla strada dei Vangeli, poiché l’onesta ricerca di Dio non crea muri ma rende fratelli nell’impegno condiviso di mettersi in dialogo con il mistero dell’Assoluto.