In ascolto della Chiesa e del prete impegnati nella conversione missionaria
di don Erio Castellucci*
Premessa.
Grazie di questo invito e delle parole di presentazione. Non potevo dire di no alla Casa di Loreto perché è la Casa del ‘sì’! E poi me l’ha chiesto Mons. Pier Giulio Diaco, che è un caro amico. Sono molto vicino nel cuore all’Associazione dei Familiari del Clero anche perché ho ancora la mamma, che ha quasi 90 anni e non è del tutto in forma, e sebbene da molti anni non possa più partecipare agli incontri diocesani, non per questo è meno vicina: mi sono reso conto che quando una persona perde in lucidità mentale, mantiene comunque una capacità affettiva molto forte e quindi il legame non è minore. Credo che mia mamma sia vicina ai preti proprio perché, pur non essendo più in grado di svolgere i servizi materiali come una volta, quando vede un prete si illumina.
Io propongo questo tema con un po’ di timore perché il titolo è molto impegnativo: “In ascolto della Chiesa e del prete impegnati nella conversione missionaria”. Non vorrei dire cose troppo generiche. Ho pensato di svolgere tre punti, dopo una introduzione, che di fatto commentano il titolo.
Introduzione.
L’introduzione è presa da un intervento di Giovanni Paolo II al Convegno ecclesiale di Palermo nel novembre del 1995 – un passaggio che divenne molto famoso – dove si parla del passaggio dalla conservazione alla missione: “Il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente ma della missione. È il tempo di proporre di nuovo e prima di tutto Gesù Cristo, il centro del vangelo. Ci spingono a ciò l’amore indiviso di Dio e dei fratelli, la passione per la Verità, la simpatia e la solidarietà verso ogni persona che cerca Dio e che comunque è cercata da Lui”. Mi sembra che queste poche righe condensino un programma che la Chiesa sta cercando, con tutta la fatica del caso, di attuare: il passaggio dalla conservazione dell’esistente alla missione. I tre punti che vorrei presentare sono proprio questi:
dalla conservazione alla missione, facendo riferimento in particolare al Vaticano II;
la Chiesa e il prete impegnati nella conversione missionaria;
Familiari del Clero in ascolto.
- Dalla conservazione alla missione.
Fu il Concilio Vaticano II, di cui ormai celebreremo i 50 anni dalla conclusione, a passare decisamente da una visione di Chiesa “statica”, un po’ ferma, molto solida ma bloccata, ad una visione dinamica, di Chiesa in movimento. E fu proprio l’idea della missione lo specifico del Vaticano II. Spesso si dice, ed è vero, che il Vaticano II è il Concilio della comunione. E si usa dire, soprattutto a partire dal Sinodo del 1985 (lo dissero i Vescovi), che l’ecclesiologia, la visione di Chiesa, è l’ecclesiologia di comunione. Vero. Ma bisogna aggiungere l’aggettivo “missionaria” perché di comunione si parlava molto anche prima: quando i Vescovi si radunarono in Concilio, prima ancora di iniziare a riflettere, avevano in mano un librettino dal titolo “La Chiesa è una comunione”, scritto da un teologo tedesco. Quindi l’idea della comunione era già stata sviluppata prima; Pio XII aveva scritto una enciclica, Mistici Corporis, del 1943, in cui dava già i fondamenti della comunione nella Chiesa. Mi pare che l’elemento specifico del Vaticano II sia la missione: quando si pronuncia la parola “missione” non si intende un compito speciale riservato ad alcuni, ma si intende la fedeltà al battesimo. Un compito di tutti. Il Concilio Vaticano II attingendo al Nuovo Testamento, ci ha fatto capire che il cristiano o è missionario o non è cristiano. Non esiste un cristiano non missionario: esistono tanti modi di essere missionari.
Quando il Concilio scrive: “La Chiesa è per sua natura missionaria”, e con Chiesa intende tutto il popolo di Dio, sta facendo davvero un recupero grandioso della visione del Vangelo dove tutti i battezzati si sentivano missionari.
C’è stato poi un lungo periodo in cui la parola “missione” sembrava riservata solo a chi partiva per paesi lontani: certo questo è il paradigma della missione: chi va ad annunciare Cristo a persone che non ne hanno mai sentito parlare. Ma la missione non è solo quello, anzi non è prima di tutto quello: la missione non è una questione di chilometri, è una questione di santità, di fedeltà
al Vangelo. Per questo la Chiesa ha indicato come patrona delle missioni una religiosa di vita contemplativa, Santa Teresa del Bambino Gesù, che sostanzialmente è sempre rimasta nel suo monastero. La missione è una questione di cuore ed è compito di tutto il popolo di Dio. Per questo il Vaticano II ha potuto recuperare pienamente il compito dei laici come “missione”. Questo abbinamento che a noi oggi sembra ovvio, non lo era ai tempi del Concilio. Che i laici, in quanto battezzati, avessero una missione non era così ovvio; semmai si riteneva piuttosto che ai laici poteva essere affidata una missione, un compito dentro la Chiesa se venivano delegati a questo dalla gerarchia. Si parlava della partecipazione dell’apostolato gerarchico: era la prima idea dell’Azione Cattolica, che poi si è rinnovata dopo il Vaticano II. Ed era già di più di quello che si diceva nell’800: “Compito dei laici è andare a caccia, sparare, divertirsi” (Talbot). Molti vedevano i laici, uomini e donne, come coloro che si devono impegnare esclusivamente nella società e per questo normalmente non si usava il termine missione; era un dovere civile, ma nella Chiesa dovevano essere i Sacerdoti, i Vescovi a portare avanti la missione.
Il Vaticano II, invece, opera questo passaggio: la missione è fondata sul battesimo. Certo va poi esercitata nella comunione: una missione che sia davvero tale entra nella comunione dentro la Chiesa. Ma non c’è bisogno di uno che la delega, è nativa, viene dal battesimo. Il Vaticano II arrivò a dire che i laici – mi riferisco al quarto capitolo della Lumen Gentium – non sono dei semplici esecutori, dei delegati, dei supplenti, ma dei collaboratori. A Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI non basta nemmeno la parola collaboratori: preferiscono “corresponsabili”.
Giovanni Paolo II intitolò il terzo capitolo del suo documento ‘Cristifidelis laici’: “La corresponsabilità dei fedeli laici nella missione”. Benedetto XVI, in un incontro di poco più di due anni fa, in una assemblea che concludeva la missione nella diocesi di Roma disse: “E’ il momento di passare dall’idea che i laici sono dei collaboratori all’idea che sono veri e propri corresponsabili”. Collaboratori è già più di semplici esecutori; corresponsabili vuol dire che insieme bisogna elaborare il progetto.
La collaborazione è la partecipazione nella fase operativa, ma se voglio attuare il criterio della corresponsabilità, prima devo chiamare i collaboratori per studiare insieme il progetto: ciascuno dica la sua opinione dal proprio punto di osservazione e poi insieme lo tradurremo. Corresponsabilità vuol dire che si risponde insieme al mandato di Gesù di annunciare il Vangelo. Questa evoluzione è ancora in corso e rappresenta, probabilmente il punto nodale del passaggio dalla conservazione alla missione. Pensiamo ai nostri Consigli pastorali: faccio solo questa applicazione, ma si potrebbe parlare dei sinodi, delle assemblee parrocchiali, ecc. Un consiglio pastorale che si muova nella logica della supplenza lavora in questo modo: il parroco convoca il consiglio pastorale e dice “io vorrei fare questo, quest’altro, ma siccome non ci riesco ho bisogno di aiuto; allora tu pensi ai bimbi del catechismo, tu vai a trovare gli ammalati”… e i fedeli eseguono.
Mettiamo che il consiglio pastorale si muova invece nella linea della collaborazione: il parroco raduna il consiglio pastorale e dice “io ho pensato che dobbiamo rilanciare la pastorale familiare e ho l’idea di fare questo e quest’altro…; care famiglie dite la vostra idea e poi datemi una mano”. Anche questo stile è ancora insufficiente.
Muoversi secondo la corresponsabilità vuol dire: ci sono questi problemi nella parrocchia, li studiamo insieme, dite il vostro parere, svolgiamo un’analisi comune e poi formuliamo delle linee comuni. Insieme dunque lo pensiamo e lo traduciamo. Certo che questo è più difficile: la delega è molto più facile. Le abitudini pastorali è impensabile che cambino di colpo. Occorre passare attraverso un laicato – in particolare quello che collabora più da vicino – che avverta la responsabilità e a cui venga data la responsabilità; altrimenti noi oscilliamo tra forme di pura e semplice conservazione o forme di sperimentazione selvaggia. Magari un prete prova qualcosa di nuovo, ma non c’è dietro la comunità.
Il dopo Concilio, in un certo senso, si è svolto così: non sempre è stato facile tenere il timone di un vero rinnovamento perché c’era chi tirava indietro (vedi il caso Léfèvre) e chi tirava troppo avanti (contestazione, dissenso, abbattimento delle strutture della Chiesa. Pensiamo alla fatica di Papa Paolo VI). La missione passa attraverso una crescita comune nella responsabilità nel pensare anche le realtà pastorali.
Gesù del resto ci ha dato i criteri su cui muoverci, non è che dobbiamo inventarci tutto. Dall’azione di Gesù io colgo tre grandi criteri che guidano la missione della Chiesa in ogni tempo: Gesù ascoltava e si “calava” nella situazione delle persone che aveva di fronte; e questo corrisponde alla scelta dell’incarnazione. Gesù non parlava sopra le teste, non indicava delle mete impossibili lasciando la persona in preda ai sensi di colpa. Gesù ascoltava, si metteva nella situazione della persona senza però abbandonarla alla sua situazione. La metteva in cammino, e spesso era un cammino di purificazione, di fatica. Pensate alla bellissima scena dell’adultera che rimane sola con Gesù, quando dopo aver detto “chi è senza peccato scagli per primo la pietra”, tutti se ne vanno; Gesù incomincia a parlare con lei (fa il primo passaggio: l’ascolta, non la chiama “adultera”, come le era stata presentata, ma la chiama “donna”, le restituisce la sua dignità), e poi le dice: “Io non ti condanno”. Poi c’è il secondo passaggio: non la lascia nella condizione di prima, ma le dice: “Vai e d’ora in poi non peccare più”. Gesù riesce a mettere in cammino. Questo secondo passaggio, nella vita di Gesù, corrisponde alla croce. Cioè Gesù ha purificato l’umanità attraverso la croce. Infine c’è il terzo passaggio: la resurrezione. Prima ancora che Gesù risorgesse si esprimeva nel ridare fiducia, speranza alle persone. Restituiva la loro dignità. L’adultera arriva da Gesù adultera e riparte come donna; Zaccheo arriva da Gesù come ladro e riparte pentito, generoso, addirittura ospite di Gesù.
- La Chiesa e il prete impegnati nella conversione missionaria.
Adesso provo a declinare più concretamente queste cose in un secondo passaggio: la Chiesa e il prete impegnati nella conversione missionaria. Ho provato a dire cosa vuol dire passare dalla conservazione alla missione e soprattutto chi è il soggetto – la comunità cristiana – e quali sono i criteri.
Oggi, quando si parla del prete, viene subito in mente una certa tensione tra le attese e le esigenze della conservazione e le spinte alla missione. In un recente dialogo con un giovane prete ho avvertito molta tensione quando mi ha detto: “Io mi sento come un medico a cui sia richiesto di fare solo delle ricette; ho studiato tanto, dal seminario ho ricavato tante idee, tante prospettive, poi adesso nella parrocchia dove sono (lui è cappellano) mi viene chiesto solamente di fare fotocopie, di guidare momenti di celebrazione… io avrei altre idee ma non le posso mettere in atto”. Con questa immagine lui ha espresso un disagio reale in molti preti che non sempre diventa, grazie a Dio, una crisi, però fa percepire quotidianamente che c’è tutta una parte di persone che richiederebbe semplicemente una pastorale di conservazione e di ciò è contenta. Mentre c’è la necessità di portare il Vangelo a tutti, quindi la necessità della missione. Il prete in questo compito ha già tutto dal Signore e dalla Chiesa, non abbiamo da inventarci modalità. Dal Concilio ad oggi si dice che il prete ha tre compiti: annunciare la Parola, celebrare i sacramenti e guidare pastoralmente il popolo di Dio.
Il Concilio, in questo modo, restringeva l’ambito d’azione del prete, perché fino a prima del concilio il prete doveva fare un po’ di tutto; l’essere prete aveva anche una connotazione sociologica, una funzione nei paesi (i maresciallo dei carabinieri, il farmacista, il maestro e il prete…); il prete doveva agire a volte anche per supplenza perché mancavano determinati servizi, strutture, ecc.. Il Concilio dice invece che lo specifico del prete consiste in queste tre cose: annunciare il vangelo (omelia, catechesi, insegnamento a scuola), celebrare i sacramenti e presiedere l’Eucaristia (anche questo è tantissimo se pensiamo alla preparazione prima di dare i sacramenti e alla necessità di seguire poi le persone che hanno ricevuto i sacramenti: è ciò che permette di incontrare più persone, l’aspetto più missionario) ed esercitare la guida pastorale: con questa espressione, “essere pastore”, il Vaticano II intendeva sia l’animazione della comunità, sia gli incontri con le persone.
Forse esprimo un’ idea che va un poco controcorrente: uno dei compiti maggiormente missionari oggi per il prete, secondo me, è la cura dell’incontro personale. Certo è importante che il prete parli a tutti, ma – specialmente oggi e specialmente ai giovani – non è sufficiente un discorso “di massa”, perché è nel rapporto a tu per tu che la persona viene fuori, si esprime, si espone. E’ in quel contesto che è possibile aiutare la persona a trovare il bandolo della matassa, per cercare di aiutarla a fare un percorso.
- Familiari del Clero in ascolto.
Arrivo ai Familiari del Clero: tutto questo percorso del prete deve essere accompagnato. Se non è accompagnato, è fortemente a rischio. Accompagnato significa prima di tutto sostenuto da una comunità: essa deve essere consapevole che il prete non è il libero battitore che debba fare tutto; ci deve essere sempre una comunità, dei collaboratori, ma la figura dei Familiari del Clero non è la figura di un collaboratore qualunque, è la famiglia del prete. Io qui allora vorrei ricordare una esperienza – non personale perché si riferisce ai primi secoli della vita della Chiesa – che mi sembra ci possa aiutare a cogliere il compito dei Familiari del Clero e anche la chiave per il rinnovo delle nostre comunità.
Voi sapete senz’altro che i primi cristiani non avevano le chiese dove celebrare la Messa, non avevano le canoniche, le sale parrocchiali dove incontrarsi: siccome erano perseguitati e comunque fino al IV secolo il cristianesimo era considerato una religione illecita, non potevano costruirsi dei luoghi di culto pubblici. Perciò si incontravano nelle case.
Questo lo testimonia S. Paolo quando nelle sue lettere più volte fa riferimento alle case dove lui è stato, ad esempio casa di Aquila e Priscilla. Ce lo testimoniano anche i primi autori cristiani, i Padri della Chiesa, addirittura ce lo testimonia l’archeologia: sono state ritrovate anche recentemente – anche nella mia diocesi, Forlì, in un paese che si chiama Terra del Sole – delle fondamenta e delle mura di luoghi che erano probabilmente case di raduno della comunità e si chiamavano “domus ecclesiae”, appunto “casa della comunità”. I cristiani si trovavano prima nelle case private a celebrare l’Eucarestia, i battesimi, a riflettere sulla Parola di Dio, a fare fraternità, poi a metà del III secolo si ritrovavano in case messe a disposizione della comunità stabilmente. Case con sale grandi, ma sempre a dimensione domestica. Questa esperienza è stata importantissima per la Chiesa ed è per questo che i ministeri, vescovo, presbitero e diacono, venivano plasmati sulla figura dei padri di famiglia.
Quando S. Paolo nelle lettere pastorali chiede che vescovi e diaconi sappiano condurre bene la famiglia, è perché erano padri di famiglia ed erano quindi considerati padri di comunità; la Chiesa era chiamata “famiglia di Dio”. L’esperienza cristiana aveva una connotazione familiare anche nei numeri, perchè naturalmente trovandosi nelle case non potevano essere migliaia e neppure centinaia. Erano al massimo alcune decine di persone e dunque familiarizzavano immediatamente.
E’ in questo contesto che si capisce perché Paolo si arrabbia quando dice: “Voi celebrate la Cena del Signore dopo avere mangiato e bevuto, ma alcuni si ubriacano e altri non hanno niente”(cf. 1 Cor 11): li sgridava perché così facendo non erano più famiglia.
E’ pure in questo contesto che si superarono le differenze. Pensate che contributo ha dato questa esperienza cristiana ai valori universali che sono riconosciuti da tutti, come ad esempio l’abolizione della schiavitù: non venne abolita subito ma venne inserito nel rapporto tra padrone e schiavo il principio “accoglilo come fossi io stesso, amalo” (cf. Lettera di Paolo a Filemone). Questo lo si sperimentava nelle case, perché allora la famiglia che si radunava in una casa non era formata solamente dal babbo, dalla mamma e dal bambino, ma c’erano almeno tre generazioni in verticale (nonni, genitori e figli) e poi c’erano anche gli schiavi e anche loro venivano battezzati e facevano la comunione; così ci si abituò a capire che lo schiavo non era un mezzo uomo ma è un essere umano: anche lui faceva parte della comunità, lo si chiamava “fratello” perché i primi cristiani tra loro si chiamavano così.
E’ in questo contesto, infine, che si dava importanza al ruolo delle donne, poi purtroppo l’abbiamo un po’ perso. Nel mondo antico la donna era la regina della casa mentre all’uomo spettava il lavoro fuori casa (campi, allevamento, ecc); la donna dunque era la responsabile della casa e quindi le testimonianze che abbiamo ci dicono che le donne accoglievano la comunità, avevano una specie di ministero dell’accoglienza.
Questa esperienza noi non possiamo riproporla tale e quale oggi, perché le nostre comunità sono generalmente molto più grandi, abbiamo luoghi di culto per accogliere centinaia di persone, però possiamo recuperare lo spirito domestico, familiare della Chiesa. Questo è ciò che la gente chiede: di non trovare un ufficio ma di trovare una famiglia. Nessuno è attratto da un ufficio! Uno può essere attratto, o almeno interrogato, da una famiglia.
Essere Familiare del Clero vuol dire dare tonalità familiare, domestica alla canonica e più in generale alla vita della comunità, perchè la canonica è come “la cabina di regia” della parrocchia.
Essere Familiare del Clero vuol dire far capire immediatamente che quando si viene in parrocchia non si trova un ufficio (se uno va all’anagrafe non si aspetta di trovare una persona che gli chiede come sta, che gli prepara il caffè…sarebbe assurdo), perché se uno viene in parrocchia e trova un clima di famiglia, questo è già un richiamo a che cos’è la Chiesa.
Tra le caratteristiche dei Familiari del Clero vengono sempre richiamate la capacità di ascolto e la riservatezza; aggiungerei anche quel necessario intuito che fa un po’ da filtro, che aiuta il prete a non avere un’ esposizione al cento per cento e poi permette subito di indirizzare, di far sentire immediatamente una parola di accoglienza.
Conclusione. Per concludere, credo che la dimensione familiare della Chiesa sia una condizione essenziale per la missione e un aiuto al prete a vivere meglio questo momento di passaggio dalla conservazione alla missione. Troppe volte le nostre comunità cristiane rischiano di assomigliare a delle piccole aziende, in genere fallimentari! Al contrario dovrebbero assomigliare a delle famiglie perché le comunità che nascono dal Nuovo Testamento sono delle famiglie. Nell’azienda conta chi produce, chi fa; nella famiglia invece chi non può ancora fare come il bambino o chi non può più fare come l’anziano e il malato, deve contare di più, attrae più attenzione, più energie. Nell’azienda contano i bilanci, nella famiglia contano di più le relazioni. Nell’azienda conta l’efficienza, le cose che si fanno, nella famiglia conta l’efficacia, il trasmettersi reciprocamente l’affetto.
Credo che proprio per il carisma specifico dei Familiari del Clero, che è appunto quello di fare famiglia con i preti, la presenza e l’azione dei Familiari del Clero, anche quando fossero ormai incapaci di coltivare relazioni o di tenere dei dialoghi, per l’età o la malattia, sia una testimonianza forte: è la testimonianza che la via che ha scelto il Signore non è la via dei numeri, della quantità, dei guadagni, dell’efficienza, delle prestazioni ma è la via della relazione, dell’amore, dell’accoglienza. Questa è la più grande chiave missionaria di cui la Chiesa dispone.