Documento conclusivo
di don Irvano Maglia
Nel Convegno abbiamo vissuto una esperienza di Chiesa attorno all’Eucarestia e nella condivisione dei doni di ciascuno. Il Consiglio Nazionale dell’Associazione ha voluto, infatti, che il Convegno vedesse la distribuzione dei ruoli tra un maggior numero dei membri, così che molti sono stati i Familiari e gli Assistenti coinvolti a vario titolo in una partecipazione il più possibile corale.
Ma tutti i Familiari e gli Assistenti presenti al Convengo hanno dimostrato disponibilità nell’accogliere i vari aspetti del programma e della convivenza in spirito di fraterna amicizia, soprattutto nella partecipazione alla liturgia e alla preghiera comunitaria.
Il clima del Convegno è stato caratterizzato da fraternità, da senso di speranza nonostante i problemi emersi, da grande amore all’Associazione e, infine, dal sincero desiderio di offrire il nostro servizio alla Chiesa.
Il Consiglio Nazionale terrà in conto l’osservazione emersa circa l’opportunità di prevedere tempi più larghi nella programmazione per favorire le condizioni per una migliore recezione dei contenuti, delle relazioni e spazi maggiori per lo scambio tra i partecipanti.
Migranti come Abramo
Dall’esperienza di Abramo, chiamato da Dio a lasciare la terra nativa per una terra frutto della promessa, abbiamo attinto l’immagine della “migrazione” come sfondo interpretativo del momento che stiamo vivendo come Familiari dei preti e come Associazione.
Siamo migranti da una terra da abbandonare verso una nuova da abitare.
Siamo chiamati a sradicare le nostre radici per immergerle in una terra nuova, e per questo le radici non devono inaridire.
Il motore della migrazione è il cambiamento, che tocca la cultura, la donna, la Chiesa, il prete e infine noi, Familiari accanto ai preti.
La terra da cui proveniamo la conosciamo bene, poiché ci siamo cresciuti.
Conosciamo bene anche le nostre radici, ma nella concitazione provocata dal cambiamento è bene richiamarle alla nostra riflessione, come ha fatto Melina Asciutto nella sua relazione al Convegno.
Le nostre radici
2.1 La nostra radice fondamentale sta nell’essere chiamati da Dio a vivere il dono della fede battesimale nella vocazione al servizio come Familiari dei preti.
Vocazione significa consapevolezza e scelta di perseguire non il proprio progetto di vita, ma quello di Dio, offrendo la propria limitata umanità perché Dio ne faccia un suo strumento.
Vocazione indica, inoltre, il cammino personale di santificazione, che costituisce la mèta cui siamo destinati.
2.2 La vocazione porta con sé, poi, un servizio ecclesiale, riconosciuto come ordinato all’edificazione della Chiesa stessa, quindi un ministero da svolgere secondo le indicazioni dateci dalla Chiesa nello Statuto dell’Associazione e seguendo gli orientamenti che emergono dalla riflessione che la Chiesa porta avanti continuamente su se stessa e l’identità del prete.
Un servizio che, se pur si esprime nelle faccende della quotidianità, respira con la Chiesa, aperta a tutti gli uomini e a tutte le dimensioni della vita delle persone.
La fecondità spirituale del dono di sé nella sofferenza dei malati e nella preghiera di monache e monaci, ci è di aiuto alla comprensione della nostra umile ma reale partecipazione alla missione della Chiesa attraverso il nostro lavoro.
2.3 Il nostro è impegno per la Chiesa che si esprime nello specifico attraverso il servizio “diretto” all’umanità del prete e alle esigenze del suo ministero, con un lavoro quotidiano e servendo le esigenze della quotidianità.
2.4 Un servizio, infine, che chiede qualità morali perché sia ecclesiale, quali la maturazione umana, un bagaglio di virtù umane e cristiane, un cammino spirituale permanente.
La terra nuova
La terra in cui il cambiamento impone di immergere le radici è nuova, da scoprire, per discernere le potenzialità, ma anche le insidie e l’impermeabilità rispetto ai valori della fede.
3.1 Un primo e fondamentale carattere della terra nuova da abitare è il cambiamento culturale, la cui tendenza dominante è un progressivo processo di riduzione del concetto di persona a quello di individuo, a quello di corpo. Si passa dal considerare uomo e donna come persone, che hanno valore in se stessi perché frutto principale dell’amore di Dio, e che per questo trovano la loro identità dentro la libera relazione di dipendenza con Dio e di interdipendenza tra di loro e con le altre creature, a considerare uomo e donna come ‘individui’, che ritrovano la loro identità nel rivendicare piena autonomia mettendo in secondo piano non solo Dio, ma anche la relazione con il resto del creato, svincolandosi da legami di responsabilità. Si assiste, poi, oggi, al passaggio a considerare uomo e donna come “corpi”, nel senso che si afferma la predominanza dell’apparire (avvenenza, prestanza fisica) sull’essere. Si tende a rivendicare una liberazione della libertà da vincoli morali, che in realtà è causa di nuove schiavitù (del denaro, del successo ad ogni costo ).
Un secondo aspetto della cultura in cui siamo immersi è che l’individuo sente di valere per quello che può fare e contare più che per quello che è nel profondo di se stesso. Da qui la ricerca di possedere risorse economiche e prestigio sociale. In questo modo di sentire si può mettere anche una tendenza, oggi presente nel pensiero di alcuni intellettuali, a considerare la scienza, che è facoltà dell’uomo di migliorare la vita umana, lo strumento per affermare il potere illimitato dell’uomo svincolandolo da ogni relazione con Dio: “ciò che è possibile fare è di per sé un bene” – si dice da parte di chi assolutizza le potenzialità della scienza.
Mentre è in potere della scienza conoscere, spiegare, rendere utili le scoperte per il bene della società, non è in suo potere dare il senso alle cose. Uno studioso che conosce le grandi risorse della scienza non per questo è in grado di finalizzarle al vero bene di se stesso e degli altri se non ha maturato dei valori morali dentro di sé.
3.2 Nella cultura attuale permane la ricerca di emancipazione della donna dai ruoli tradizionali (affetti, famiglia, cura dei bisogni) per sentirsi valorizzata per quello che è e non per il servizio che può rendere, ma questo desiderio di sentirsi valorizzata passa ancora spesso attraverso forme di conflitto con il genere maschile, perciò si manifesta come lotta di potere.
D’altra parte dalle donne è fortemente sentito il bisogno legittimo di partecipare all’ elaborazione delle decisioni a tutti i livelli e settori della società.
Ma si fa strada anche un anelito della donna ad essere riconosciuta nei suoi diritti dentro una società che vede cambiare i rapporti tra sesso maschile e femminile reimpostandoli: dal conflitto tra chi conta di più al riconoscimento reciproco del valore dell’altro. Un’ emancipazione della donna, quindi, che non passa dallo spodestare l’uomo dai posti di potere, ma dalla ricerca comune di ciò che è bene per entrambi e per la società.
3.3 Oggi, la Chiesa pensa se stessa non più prevalentemente come istituzione, ma come comunità di persone credenti nel vangelo dell’amore, quindi come istituzione che vive della comunione tra i suoi membri. Una comunione, però, non finalizzata alla consolazione che ne deriva, ma alla testimonianza missionaria: una comunione che attrae ed è capace di infondere speranza.
Una comunione che chiede di tradursi in termini concreti e operativi nella ‘corresponsabilità’ tra le vocazioni, gli stati di vita, la gerarchia e i laici ai diversi livelli della vita della Chiesa, da quello universale alla parrocchia.
Una corresponsabilità che, a sua volta, ha come condizione relazioni umanamente ricche e che si attua attraverso la collegialità nelle decisioni e la condivisione dei compiti. La Chiesa, in questo modo, si ispira alla famiglia, la prima comunità, dando a se stessa una tonalità familiare.
3.4 Nella Chiesa comunità il tema della valorizzazione della donna non si pone in termini di rivendicazione di fette di potere concorrenti con l’uomo, ma va posto all’interno del tema del rapporto più fondamentale tra gerarchia e laici, tra sacerdozio ordinato e sacerdozio battesimale.
La valorizzazione della donna passa, perciò, attraverso un rapporto di comunione e di corresponsabilità tra le componenti del popolo di Dio. L’assunto teologico che il ministero ordinato (il presbiterato) è a servizio del ministero battesimale, che è di tutti i cristiani, si traduce, ancora in tanti casi, nell’esatto contrario dentro le nostre comunità, là dove il rapporto tra preti e laici non prevede che le decisioni siano frutto di discernimento comunitario e le divisioni dei compiti siano ispirate dalla corresponsabilità. In sostanza il prete decide e i laici collaborano come esecutori.
3.5 Nella Chiesa comunione il prete da uomo dell’istituzione, che ricopriva ruoli di unico o primo responsabile, è chiamato a diventare uomo costruttore di comunione e di corresponsabilità passando a responsabile ultimo della comunità, che cioè fa sintesi tra i diversi doni che lo Spirito fa emergere nella comunità.
Il prete è chiamato a curare le relazioni personali e ad educare a relazioni che abbiano qualità cristiana.
Il prete annuncia la Parola, presiede l’Eucarestia, guida la comunità, ma con l’obiettivo di educare alla fede, alla relazione con Dio e a relazioni ispirate dai valori evangelici.
Proprio per questo il prete prova su di sé la tensione tra il desiderio e il dovere di annunciare il vangelo e di educare alla fede e le richieste di sole prestazioni di servizi religiosi che gli vengono da tante parti della sua comunità. Una tensione che può essere superata se il prete la sa riconoscere e la sa condividere in corresponsabilità con i confratelli e i laici.
- Il volto nuovo dei Familiari dei preti
Nel contesto di cambiamento generalizzato, quale volto nuovo di Familiari emerge?
4.1 I Familiari del Clero sono uomini e donne concreti, con tante storie diverse, che oggi come ieri sono destinatari non solo della chiamata del Battesimo a vivere come figli di Dio, ma di altre chiamate, che concretizzano la vocazione fondamentale del Battesimo: la più parte sono stati chiamati al matrimonio, alcuni altri alla vita consacrata. A queste vocazioni si aggiunge la vocazione a Familiari del Clero, intesa come vocazione al servizio della Chiesa attraverso la collaborazione diretta al prete, alla sua persona o al suo ministero. Tutto ciò non è da intendersi come un assommarsi di vocazioni, e neppure che una vocazione cancelli le altre: ciascuna è cammino per realizzare la vocazione del Battesimo. Per questo, partendo dalla riflessione del Concilio Vaticano II nella costituzione Lumen Gentium (40-41), possiamo affermare che la vocazione a Familiari del Clero è, accanto alle altre vocazioni, autentico cammino di santificazione. A fondamento della vocazione dei Familiari sta, infatti, la consapevolezza di aderire col cuore al progetto di Dio, che si esprime nel singolo prete. L’adesione del cuore comporta il rapporto intimo con Dio e si esprime nella preghiera e nell’offerta della propria vita per i preti e la loro missione.
Sempre partendo dalla riflessione del Concilio possiamo anche affermare che la vocazione dei Familiari è dono, che insieme ad altri doni, sono concessi dal Signore per l’edificazione dell’unica Chiesa.
Ma se una è la vocazione ad essere Familiari, diversi sono i modelli di concretizzarla.
La diversità di modelli segue il moltiplicarsi delle situazioni personali e dei bisogni del prete.
Il mutamento dei bisogni del prete chiede modalità diverse di risposta, per cui al modello di Familiare, che opera presso la casa del prete, si aggiungono nuovi modelli.
4.2 Sono chiamati al servizio di Familiari tutti i genitori dei preti, anche se non convivono e non sono vicini fisicamente al proprio figlio prete, lo seguono anche solo saltuariamente nei suoi bisogni domestici, ma sempre lo accompagnano con l’affetto e la preghiera.
Sono a pieno titolo Familiari gli anziani e gli ammalati, che in una sorta di immolazione quotidiana offrono a Dio se stessi per i preti, partecipando in questo modo attivamente alla loro missione.
Sono Familiari i parenti o i collaboratori che condividono la vita quotidiana del prete accudendo la sua persona nei bisogni concreti di ogni giorno.
Sono altrettanto Familiari le persone che collaborano direttamente al ministero pastorale del prete, anche se non si prendono cura della quotidianità della sua vita domestica.
In un tempo in cui il ministero del prete, anche in seguito alla diminuzione delle vocazioni al sacerdozio ordinato, si arricchisce e appesantisce di funzioni, non solo quelle più propriamente pastorali spesso a servizio di più parrocchie, ma anche quelle burocratiche e amministrative; ora che è più difficile per i fedeli incontrare personalmente il prete perché tutti abbiamo a disposizione meno tempo; oggi davanti alla necessità per il prete di dotarsi della competenza nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, aumentano i bisogni di collaborazione al suo ministero. Tutte le risposte a questi nuovi bisogni del ministero del prete generano nuovi modelli di Familiari, che sono a pieno titolo concretizzazioni dell’unica vocazione dei Familiari del Clero.
4.3 Le difficoltà dovute al cambiamento della cultura, da una parte, e dall’altra al desiderio della Chiesa di accompagnare l’annuncio del vangelo con la testimonianza di vita di una comunità che vive la comunione e la corresponsabilità, delle quali si fa carico in primo luogo il prete, chiedono a tutte le componenti del popolo di Dio, e quindi anche ai Familiari, di maturare una maggiore consapevolezza della loro chiamata e del loro ministero nella Chiesa.
Una consapevolezza personale, interiore prima di tutto, per saperla vivere come cammino di santificazione, per saper rendere conto del dono ricevuto, per saperlo spiegare agli altri nelle sue motivazioni e nei suoi scopi; una maggiore consapevolezza per mettere il proprio dono insieme agli altri per l’edificazione della Chiesa.
4.4 La natura ecclesiale della vocazione e del ministero dei Familiari del Clero chiede che i Familiari respirino l’universalità della Chiesa partecipando ai suoi obiettivi pastorali, sia a livello universale che della propria diocesi e parrocchia. Inoltre chiede ai Familiari di partecipare al travaglio della Chiesa nell’obiettivo di far emergere la tonalità familiare delle comunità cristiane. Tonalità familiare che si esprime in nuove relazioni tra uomini e donne, tra le diverse vocazioni, tra gerarchia e laici. Relazioni improntate alla RECIPROCITÀ: ciascuno, uomo o donna, le diverse vocazioni, la gerarchia e i laici, è se stesso solo in un rapporto dinamico con gli altri, un rapporto di dono e di accoglienza. Un rapporto di riconoscimento e di stima reciproca nella convinzione che si è tutti destinati all’edificazione della Chiesa.
Possiamo perciò affermare che il contesto comunitario improntato alla reciprocità e a nuove relazioni tra gerarchia e laici, è la condizione in cui si può affrontare il problema della valorizzazione della donna nella Chiesa e, possiamo aggiungere, la valorizzazione della vocazione dei Familiari del Clero.
4.5 Come l’Associazione può partecipare con un proprio contributo a questo travaglio della Chiesa?
Come vivere la “reciprocità” tra uomini e donne, tra preti e laici dentro i nostri gruppi associativi?
Come vivere la reciprocità tra gli Assistenti e i Dirigenti a livello nazionale, regionale e diocesano?
La reciprocità è da vivere in primo luogo nel rapporto tra ogni Familiare e il suo prete.
Come aiutare i Familiari a riconoscere la vocazione e il ministero del prete a cui dedicare il proprio impegno, e come sensibilizzare i preti perché riconoscano, a loro volta, la vocazione e il ministero dei Familiari in maniera non funzionale?
Molti preti, soprattutto giovani, non riconoscono il ministero dei Familiari, sia per motivi generazionali, che per sottovalutazione dell’importanza del loro aiuto: cosa fare?
Qui si pone il compito dell’Associazione per sensibilizzare le comunità diocesane, dai Vescovi ai preti, circa il problema della tenuta e della crescita in umanità del prete, che non può prescindere dalla cura della dimensione domestica della sua vita e dalla condivisione di alcuni impegni del suo ministero.
E’ un compito che interpella direttamente gli Assistenti dell’Associazione, a tutti i livelli, perché se ne facciano interpreti presso i confratelli e dentro gli organismi diocesani di partecipazione.
4.6 La reciprocità, che riconosce l’altra vocazione come un contributo necessario a vivere la propria, chiede a sua volta ai Familiari atteggiamenti e virtù, che lo Statuto dell’Associazione chiama equilibrio umano, rettitudine morale e spiritualità, che possiamo riformulare in questo modo:
equilibrio umano, espressione di maturazione umana, del processo dinamico mai concluso che presuppone la coscienza di essere sempre in crescita e bisognosi di aiuto;
rettitudine morale, manifestazione della dirittura, della purezza del cuore, che scaturisce dal senso maturo dei propri limiti e delle proprie colpe di fronte alla ricchezza dei doni di Dio;
spiritualità, frutto del rapporto intimo con Cristo, un rapporto che è terzo nell’elenco, dopo l’equilibrio umano e la rettitudine morale, poiché costituisce il vertice della costruzione della personalità cristiana.
In realtà c’è una “circolarità” tra l’equilibrio umano, la rettitudine morale e la spiritualità: o si cerca di assumerle insieme o non c’è crescita della persona.
4.7 Il rapporto intimo con Cristo è condizione per l’accoglienza del dono dello Spirito di Cristo, che è spirito di “libertà interiore”.
Non c’è un episodio emblematico nei vangeli, ma Gesù vive tutti i rapporti nella libertà del cuore: col Padre, col prossimo, con i suoi, con le donne, con i peccatori.
La libertà del cuore in Gesù si traduce nella “gratuità”, sino al dono di se stesso nell’ assunzione del peccato dell’umanità, per espiarlo portandolo su di sé sulla croce.
4.8 La libertà del cuore, libertà da se stessi, dal peccato che è in noi, è la fonte di tutte le virtù e genera la gratuità dell’atteggiamento che permette ai Familiari di:
– donare se stessi attraverso l’esercizio del proprio compito, evitando chiusure personalistiche e aprendosi alla collaborazione;
– cominciare per primi nel dono, vincendo la tensione tra il desiderio di vedere riconosciuti i propri diritti e meriti e la constatazione del mancato riconoscimento da parte del prete o della comunità;
– non occupare tutti gli spazi, in forma possessiva, attorno al prete con l’obiettivo nascosto di colmare il bisogno di affermazione di sé. La gratuità libera spazi per l’azione di altri e permette ai Familiari di pensare a se stessi e di concedersi tempi necessari di riposo, che rigenerano il corpo e lo spirito;
– sviluppare la capacità di cogliere in ogni situazione ciò che è essenziale e concedere a questo, ascolto e attenzione;
– assumere l’umiltà, la riservatezza, l’affabilità e la tenerezza come atteggiamenti coerenti con il proprio servizio al progetto di Dio, che si manifesta nel prete;
– esercitare e accogliere la correzione fraterna col proprio prete, tra i membri dell’Associazione e dentro la comunità, ma per solo amore alla verità e al bene dei fratelli e della Chiesa.
Conclusione
La ricerca del volto nuovo per i Familiari dei preti, che ha costituito l’intenzione del Convegno, ha prodotto i risultati sperati?
Ad una lettura attenta delle conclusioni si può dedurre che nel Convegno è stato richiamato molto del volto tradizionale dei Familiari dei preti, e del nuovo solo qualche lieve segno.
Sono emerse soprattutto delle sollecitazioni, che fanno pensare, e chiedono di tenere sveglia la nostra attenzione per il futuro.
Dice Gesù dello scriba, cultore ebreo della Bibbia, una volta divenuto discepolo del Regno: “è come un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
In modo simile noi, migranti come Abramo da una terra conosciuta ad una nuova, desideriamo mantenere vive le nostre radici – le cose antiche – e aprirci alle cose nuove. Come Abramo, ma più vicino a noi, come Maria, non sappiamo dove ci conduce il nostro “si”.
Chiediamo alla Vergine dell’ascolto e della risposta, di comunicarci la sua fiducia in Dio che opera le cose nuove e ci affidiamo a Lei perché con la sua compagnia possiamo camminare, restando fedeli, sino a dove il Signore ci condurrà.
Il suo amore al Figlio e alla Chiesa, a lei affidata sul Calvario, le chiediamo diventino il nostro amore a Cristo e alla Chiesa e che ci basti, come a lei è bastato, per attraversare il tempo del cambiamento verso il nuovo che Dio sta già compiendo.