SERVIZIO DEL FAMILIARE DEL CLERO

di Eliana MARCORA

La collaborazione familiare nella casa del sacerdote

 “Paolo si trattenne ancora parecchi giorni, poi prese congedo dai fratelli e s’imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila….” (AT 18). “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù……” (Rm 16,3)

Il ruolo del laico nella Chiesa nasce dalla sua vocazione battesimale.

Rileggendo i documenti conciliari e le Esortazioni apostoliche riscopriamo che i fedeli laici, in forza del sacerdozio comune dei battezzati, sono personalmente chiamati dal Signore a svolgere una missione per la Chiesa e per il mondo. Partecipi della missione di Cristo sacerdote, profeta e re, i laici esprimono lo spirito apostolico, sull’ esempio di quegli uomini e di quelle donne che aiutavano Paolo nella diffusione del Vangelo (cfr. At 18,18-26; Rm 16,3.

Qual è il nostro ministero?

La comunità che riceve il servizio del prete ne recepisce la preziosità rispondendo con la vocazione dei Familiari del Clero come servizio ad un’altra vocazione, quella presbiterale, per edificare la Chiesa con il volto di famiglia.

Il Familiare è a servizio dell’umanità del prete. L’umanità del prete cresce se è oggetto di cura. Questo per evitare la trascuratezza nel vestire, mangiare, dormire, abitare, ma anche la trascuratezza nello stile di vita: nel tratto con cui si rapporta con le persone, nello stile con cui si fa carico dei problemi della comunità.

I Familiari  allora sono coloro che hanno un rapporto simile a quello dei componenti una famiglia pur in assenza di un legame di sangue, ma che si traduce ugualmente in affetto, cura e riconoscenza. L’Associazione dei Familiari vuole sollecitare la sensibilità dei preti, vescovi, comunità cristiana perché comprendano che la cura della persona del prete, la collaborazione diretta al suo ministero sono condizioni necessarie perché l’umanità del prete si manifesti in senso pieno.

Un nuovo modello di azione e di stile

 Essere familiare con qualcuno: è proprio di colui che ha consuetudine di frequentazione, che gli è abituale, che vive in un rapporto intenso di amicizia e stima. Familiari sono i genitori, i parenti che hanno un legame di sangue ma anche coloro che hanno un rapporto simile in assenza di legame di sangue.

Sarebbe meglio, come ci suggeriva don Irvano, chiamarci “Collaboratori Familiari del prete”, perché viviamo un rapporto familiare e, in virtù del sacerdozio battesimale, gli offriamo un tipo di collaborazione diretta che esige e crea un rapporto fatto di affetto, cura e riconoscenza reciproci. Non abbiamo il compito di operare pastoralmente per la comunità, ma di esprimere al prete, a nome della comunità, la cura e la gratitudine per la sua sollecitudine pastorale. E’ il cuore che li rende solleciti, quindi, indipendentemente da chi sia il prete. Questa modalità esprime già una novità rispetto al passato.

E’ una scelta di vita vissuta nella fedeltà quotidiana come servizio reso al Signore e alla sua Chiesa: non basta senso del dovere, abnegazione, intelligenza;  è questione di fede, di speranza e carità.

Ci sono però altre modalità di collaborazione diretta al prete, per esempio quando si svolgono compiti di aiuto personale nello svolgimento di alcune mansioni, che al contempo liberano il prete da incombenze materiali lasciandogli tempo e spazio per svolgere il suo ministero pastorale. Nella comunità i preti cambiano secondo le necessità e decisioni dei vescovi. I Collaboratori Familiari devono rimanere disponibili ad esprimere al nuovo prete la medesima collaborazione personale e diretta.

Ecco alcuni esempi di nuovi modelli: svolgimento di funzioni di accoglienza e di ascolto che richiedono doti di amabilità e riservatezza; funzioni attinenti la responsabilità giuridica propria del parroco; funzioni e competenze per servizi burocratici e amministrativi attinenti la responsabilità personale del Parroco. Funzioni che esigono dal Familiare la conoscenza della realtà parrocchiale e la conoscenza e la condivisione di criteri di valutazione dei problemi. Attenzione: il Familiare non è non un altro parroco! Tutto quell’universo di persone che si riversa attorno al prete e, con occhio al femminile, quel completamento concreto attraverso la missione di previsione, comprensione, accoglienza dei problemi, soluzioni rapide e concrete fatte in maniera lieve; questo è il Familiare.

La dimensione relazionale

 “Figlie carissime, vi ringraziamo cordialmente per essere venute qui a ricevere conferma e stimolo per un lavoro, della cui preziosità rendiamo pubblica testimonianza. Voi proseguite l’umile e nobile ministero di quelle donne, che, secondo la notizia di San Luca, seguivano Gesù e i Dodici e «li servivano» con generosità (Cfr. Lc 8,3). La vostra è una forma molto lodevole di dedizione alla Chiesa. Che il Signore vi rimuneri largamente per la vostra attività, nascosta come quella di Maria a Nazaret, ma di grande sostegno per i Ministri di Dio e per il loro impegno pastorale: secondo la promessa di Gesù, avrete la loro stessa ricompensa”(Cfr. Mt 10 Mt 40-42). (Da un’ Udienza di Paolo VI 15 giugno 1977)

Così si esprimeva il Papa Paolo VI. Sono passati quasi quarant’anni!

Il cambiamento ha investito anche la Chiesa e richiesto una modifica nei rapporti di relazione. Come si colloca la nostra figura all’interno di questo cambiamento? Quale tipo di relazione deve assumere? Cosa deve scartare, cosa valorizzare?   Dobbiamo condividere con il sacerdote il peso dell’oggi che significa vivere situazioni nuove con profondi cambiamenti nella società e nella Chiesa.

La relazione consiste nel riconoscimento reciproco del proprio dono – prete e Familiare – perché ci si senta arricchiti e completati.

Il nostro ministero ecclesiale di “Familiare” deve essere animato dal senso della Chiesa e dal valore della gratuità. La relazione va vissuta in un clima di stima reciproca, con gratuità vuol dire dimenticanza di me stesso, delle mie necessità, preoccupazioni. Distacco dal mio modo di pensare, con atteggiamento di umiltà, che significa saper stare al proprio posto, senza competizioni, senza bisogno di riconoscimento. Da qui nasce la capacità di stare “dietro”, senza sensi di inferiorità, di essere riservati nella consapevolezza che il “saper custodire l’altro e i segreti dell’altro” è un dono grande.  Una relazione solida deve essere fondata sulla tenerezza che sappia riconoscere i segni della fatica, della stanchezza, del limite anche del prete; un accompagnamento che dà fiducia ai preti, filtriamo le chiacchiere nelle parrocchie, stemperiamo i malumori, evitiamo i pettegolezzi e le amplificazioni delle vicende per concentrarci sulla missione del sacerdote e facciamoci carico dell’essenziale.

Il radicamento nella comunità/sradicamento….dalla comunità

 “Siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde ovunque per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo….”(1Cor 2,14-16)

Mi torna sempre alla mente il gesto di intimità e tenerezza dell’unzione dei piedi di Gesù con il profumo per celebrare il ritorno alla vita di Lazzaro. Chi mette in contatto con il Signore Gesù non deve essere seducente per attirare le persone a sé, non avere legami di possesso, ma di tenerezza e rispetto.

Invece si corre il rischio di essere seduttivi, il che equivale a sequestrare gli altri, magari nel cerchio magico di un nostro club riservato, dove si creano vincoli intensi e caldi che però non fanno maturare i legami liberanti e aperti al mondo della Chiesa. Quante esperienze negative anche nei nostri ambiti di Familiari! Quante cappelline sappiamo creare, quanti gruppetti formiamo e questi poi diventano isole!

Incontriamo mille occasioni, ci passano davanti situazioni tanto diverse, cerchiamo di diventare “ospitali”. Quanti della comunità bussano alla nostra porta magari con una scusa banale, nascondendo invece un reale bisogno di sostegno perchè magari la loro fede in Gesù si è appannata o è in difficoltà. Attendono solo una nostra risposta per continuare, desiderano che li mettiamo in contatto con il sacerdote per rianimarsi. Quante volte per una falsa prudenza che a volte rischia di sconfinare nell’arroganza, costruiamo una barriera di fittizi impegni come rete in cui avviluppare il prete, senza renderci conto che, per primo, egli appartiene alla comunità cristiana locale ed ecclesiale. Siamo a volte delle vestali iperprotettive, rivestite di sacro furore per difendere a spada tratta la figura del prete, rischiando magari di aumentare invece che sedare chiacchiere o pettegolezzi verso i preti, senza accorgerci che creiamo loro dei disagi arrischiando di fargli perdere l‘ “odore delle pecore”.

Cerchiamo di essere persone di “comunione” e “in comunione” che manifestano alla comunità la complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita del prete e del familiare e ci permettono di donare il nostro specifico.

Dobbiamo essere capaci di un accompagnamento che sappia leggere una chiamata, che esiga la capacità di discernere tra le mille occasioni che coinvolgono il prete. Sforziamoci  di creare armonia, gioia, alleggerendo i sacerdoti dalle incombenze minute e sostenendoli, invece, negli impegni che li toccano in prima persona. Impariamo anche a discernere le comunicazioni da trasferire al prete e quelle da far cadere.

Lo sradicamento dalla comunità che a volte è richiesto dal vescovo per andare altrove è difficile ma necessario. Aiutiamo a viverlo non come fuga, ma con disponibilità pronta all’obbedienza al vescovo, disposti a concepire che “il campo è il mondo” vuol dire avviarci verso il luogo dove Dio chiama il sacerdote per altri compiti. Noi aiutiamo i preti se non gli facciamo pesare la sofferenza per l’allontanamento dalla casa, dalle conoscenze o dai gruppi costituitisi, il trasloco; se lo aiutiamo sempre a vedere il positivo delle cose, se gestiamo la vita in modo che senta la leggerezza della novità del cambiamento.

Dio ci porta là dove non avremmo mai pensato.

Lui conduce la danza della nostra vita!

Forse noi dobbiamo imparare ad affidarci per poter affidare il prete.

Ricaduta positiva della collaborazione sul Familiare

La ricaduta positiva sulla comunità si realizza se abbiamo compreso il senso e la bellezza della nostra vocazione. Questo avviene se noi la sveliamo dai luoghi comuni, se sappiamo farne rilevare l’importanza.

Verifichiamo se noi viviamo questo come un “potere” piuttosto che come “servizio” rivolto alla comunità.

Non dobbiamo mostrarci competitivi, ci realizziamo se viviamo questa vocazione rispettando il mistero del prete con uno stile di “accompagnamento” che esprime la comprensione e l’accoglienza di una chiamata,

“Essere donne” con sensibilità laicale che aiutano il prete a scendere dall’altare per creare comunità, per incontrare la gente, ad essere più sensibile, svolgere un servizio dentro la comunità. C’è un centro da cui dobbiamo ripartire e che non dobbiamo perdere: è Cristo. Non possiamo essere Familiari, donne e uomini diversi, di speranza se non incontriamo e preghiamo personalmente Cristo.

Ci realizziamo se scopriamo la reciprocità, cioè ci riconosciamo uguali nell’umanità, bisognosi gli uni degli altri; non sentiamoci autosufficienti: né il prete né il laico.

 Esperienza/Testimonianza

Queste sono le mie radici. Sposata da 50 anni, con quattro figli, ho il marito ricoverato in una struttura da quattro anni con una malattia degenerativa.

Vita lavorativa per 40 anni come Direttore Amministrativo in una scuola superiore, sono inserita nella comunità ecclesiale come laico battezzato. Sono membro del Consiglio pastorale di Decanato e del Consiglio pastorale della diocesi di Milano.

La mia storia nasce nell’alveo dell’Azione cattolica.

Fin da piccola, per l’attività della mia famiglia, ho frequentato la casa dei preti e conobbi allora quelle che si chiamavano “perpetue”. In me, bambina, crearono strane suggestioni: le immaginavo così dure, direi arcigne per sempre! Ho acquisito invece il senso di ecclesialità negli anni del Concilio: quel Vento leggero e misterioso che soffiò e vivificò le nostre Chiese. Anni meravigliosi, ma anche tormentati, in cui vissi un’esperienza laicale significativa pur se dolorosa nella mia parrocchia. Il mio atteggiamento mutò radicalmente: mi resi conto di come la contestazione metteva in gioco troppi valori importanti.

La mia scelta divenne un punto cardine e iniziò la mia collaborazione continua con la gerarchia, i sacerdoti, per la ricerca dell’unità nella diversità. E’ stato difficile allora tenere insieme le buone ragioni di un Vento impetuoso che conduceva verso nuove esperienze e il raccordo con la tradizione. Imparai uno stile nuovo di presenza accanto ai preti: quante sofferenze ho visto nei sacerdoti, anche miei parroci, quanta incomprensione, ma anche quanto Amore per la verità, quanta fatica per tener fede a una Chiesa fondata sulla roccia di Cristo che ha come potere solo il servizio all’uomo! Quella fu una scuola alla quale crebbe il mio amore verso la Chiesa, i vescovi, i preti. Questa è la matrice che leggo oggi come mia provenienza, da cui imparai il rispetto per la missione del prete, del vescovo, della diocesi. Ho imparato ad amare l’associazionismo come collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa.

La mia appartenenza all’Azione cattolica mi ha sostenuto poi nell’accettazione dell’incarico di responsabile dell’Associazione di Milano, dopo che per anni avevo avuto familiarità con i preti per collaborazione stretta, anche familiare, non nel senso di convivenza ma di frequentazione e di lavoro fianco a fianco con i sacerdoti. E’ stata un’esperienza intensa, durata tanti anni, condivisa anche da mio marito o, meglio, sulla scia del suo impegno accanto ai sacerdoti in un ministero di laicità – il suo – davvero esemplare.

Il mio ingresso nell’Associazione, invitata, sollecitata e oltre da don Giuseppe è nato dentro me come la risposta a vivere la mia vocazione nella Chiesa a servizio dell’umanità del prete. E’ stato un completamento alla realtà che vivevo e mi ha spinto a farmi carico, da laica esterna non familiare consanguinea, di interpretare il dovere di tutta la comunità nell’esprimere cura e riconoscenza verso il prete.

Sottolineo per parte mia l’immenso aiuto ricevuto dall’Associazione Nazionale, nella quale ho imparato il dono della reciprocità vissuto tra donne e uomini, tra preti e laici in un clima di collaborazione che ha permesso lo scambio del pensiero nella crescita della responsabilità. Qui ho sperimentato l’appartenenza alla comunità della Chiesa, ho trovato il senso a mantenere viva la vocazione al servizio ecclesiale, a intuire le nuove esigenze che maturano, a respirare con la Chiesa, a curare le relazioni perché crescano i gruppi diocesani.

Se crediamo che sia una vocazione a servizio della Chiesa non possiamo assistere inerti alla fine delle nostre Associazioni locali o diocesane.

Basta con lo scoraggiamento, la futile critica; basta con la tiritera che siamo vecchie, poche, che si è sempre fatto così; basta con gli scuotimenti di testa che significano dissenso; basta con gli incontri di sola preghiera, basta con gli incontri solo the e pasticcini. Proviamo a far funzionare il cervello, ad essere attivi e partecipi.

Chiediamoci:

quanto conta per me l’Associazione?

Cosa vuol dire incontrarci e incontrarmi con altri?

Come vivo quest’appartenenza?

Cosa dà di diverso alla mia vita?

Queste sono le mie tentazioni, questa è la mia esperienza di vita.

Non posso concludere ilmio intervento senza dirvi che la mia esperienza poggia su dei testimoni formidabili: non posso non ricordare il mio testimone, cioè colei che mi ha introdotto nel mondo dei Familiari e nell’Associazione. Chiedo scusa a don Giuseppe se ricordo qui Nerina, sua indimenticabile sorella, deceduta da cinque mesi. E’ stata nella parrocchia una presenza armoniosa, amica, mi ha accolto insegnandomi con la sua presenza gioiosa e convinta come servire il sacerdote. Apriva la casa a chiunque bussasse e accoglieva tutti, preti e parrocchiani, con un sorriso illuminato, ampio che partiva dal cuore. Ha cucito infiniti punti per tanti sacerdoti, preparato e curato paramenti sacri, addobbi. Riempiva la chiesa con la sua voce squillante ed era sempre disponibile con un “sì”.

L’eccomi! di Maria, da lei vissuto quotidianamente, mi ha insegnato a soffrire per le chiacchere inutili e distruttive, comuni a volte nei nostri ambienti, ma soprattutto a dimenticare, ad andare oltre. Mi ha preso per mano e introdotto nell’Associazione di cui era una convinta animatrice. Ha partecipato ai molti Convegni  e giornate di studio sempre entusiasta. Mi ha trasmesso il testimone dell’impegno nell’Associazione con una carica di fedeltà e di fiducia e soprattutto con l’entusiasmo. Ora so che ha messo in fila gli Angeli e sta rattoppando e cucendo loro le ali. La sento vicina nella comunione dei Santi,  che rafforza i legami, siamo in comunione profonda con lei. Ho accettato di parlare a voi, anche se inadeguata e ultima arrivata, proveniente da un’esperienza diversa, per dirvi che l’entusiasmo contagia, che il sorriso corrompe, che anche i nostri vescovi – e chiedo scusa per l’impertinenza al Vescovo presente – si lasciano corrompere e ci ascoltano se li avviciniamo e facciamo intuire il nostro  profondo amore per i sacerdoti; se li  avvolgiamo con la nostra cordialità, se lasciamo intuire il nostro amore per la Chiesa.

Al “basta” di prima vorrei aggiungere un “eccomi”: come Maria che ha consegnato se stessa e si è lasciata inghiottire dal dolore del Figlio per percorrere la sua stessa strada e praticare lo stesso stile.

“Eccomi”: così nasce in noi lo slancio che ci dispone alla sequela di Gesù.

Ci facciamo avanti come eco della sua Parola che ci chiama ad esercitare con competenza e determinazione il nostro servizio e lo Spirito Santo suscita in noi risposte alla vocazione a cui siamo chiamati, suggerendoci la strada della sequela di Gesù.

Siamo gente che si alza in piedi e dice “Eccomi” per esprimere la vicinanza, la condivisione ai sacerdoti, alla Chiesa nel dono della tenerezza che ci viene dal cuore.

Certamente l’Associazione ha perso smalto: a volte gli acciacchi, le fatiche, l’età che non rinverdisce, le cattive notizie hanno il sopravvento sul nostro buonumore, sulla nostra dolcezza, sulla nostra comprensione.

Tutto questo ci spinge però a metterci ancora nel mare della storia: siamo poche, ma capaci di sentire la vivacità dello Spirito vibrare dentro di noi, di accogliere la carezza di Dio che ci accompagna sempre, sufficientemente caparbie per rimboccarci le maniche e continuare.

Rileggiamo quanto ha detto Papa Francesco nell’intervista rilasciata in aereo, al ritorno dal Brasile:

“Una Chiesa senza le donne è come il Collegio Apostolico senza Maria.

Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! E’ più importante! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Ma la donna, nella Chiesa, il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice, limitata … No! E’ un’altra cosa! Non si può capire una Chiesa senza donne, ma donne attive nella Chiesa, con il loro profilo. Nella Chiesa, si deve pensare alla donna in questa prospettiva: di scelte rischiose, ma come donne. Questo si deve esplicitare meglio.

Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa. Soltanto può fare questo, può fare quello; adesso fa la chierichetta, adesso legge la Lettura, è la presidentessa della Caritas … Ma, c’è di più! Bisogna fare una profonda teologia della donna”.