“Quando pensi di non farcela più”

(Gaudete et exsultate nn. 158-161)


Mons. Ennio Apeciti: Rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma e Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi


«La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita».

È una frase potente questa, con la quale papa Francesco inizia il quinto capitolo dell’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate sulla santità.

È una frase ricchissima di sfumature, di contenuto. Si parla di «combattimento permanente»; della necessità di avere «forza e coraggio», ma non per coltivare timore o ansia, bensì per «resistere», per «annunziare».

È interessante: resistere significa che c’è già la certezza della vittoria e che si tratta solo di “tener duro”, di non temere l’avversario, che è più debole, anzi è decisamente debole. È come certi cani, che abbaiano per spaventarti, ma se non ti muovi, se ti dimostri fermo, si allontanano e se tu fai qualche mossa contro di loro, addirittura scappano. È la solita forza dei deboli prepotenti, che sperano, alzando la voce o minacciando, che l’altro si spaventi, si pieghi, si arrenda. Ma chi è forte sa che chi più alza la voce, meno argomenti ha per ragionare; chi minaccia non ha argomenti per affermare la vera sua forza. Solo i deboli gridano. Solo i vigliacchi paurosi minacciano.

Per questo sono belle le parole del Papa, che unisce alla necessità di resistere, quella di «annunciare il Vangelo».

La vera tentazione del diavolo, infatti, non è tanto l’umiliarci con le sue pseudo-vittorie, ma è quella di scoraggiarci, di farci vergognare, di farci sentire inadeguati ad annunciare quel Vangelo, in cui crediamo e per il quale viviamo, ma che non sempre riusciamo a vivere come dovremmo, come vorremmo.

È la nostra bella condizione di esseri umani: chiamati all’Infinito di Dio, alla Sua divina Bellezza, ma ancora in cammino, come il bimbo che cade molte volte prima di riuscire a camminare spedito da solo. Allora il bambino non ricorda più i pianti per le cadute, preso com’è dalla gioia di essere capace di correre e camminare.

Guai, allora, se noi cedessimo alla vera tentazione, cui mira il nostro Avversario: quella di farci vergognare del Vangelo, nel quale crediamo; che cerchiamo di vivere nel modo del bimbo incerto e tenace: non importa quante volte cada, importa la volta in più in cui si rialza. Non importa quante volte siamo stati o siamo incoerenti con il Vangelo, che pure amiamo; importa la volta in più nella quale diciamo: «Io credo, Signore. Aumenta la forza della mia fede».

E non lo diciamo solo a Lui, ma al mondo, agli altri, a quelli che forse ci prendono in giro, scoprendo i nostri momenti di debolezza, di fragilità e ci accusano di incoerenza. Un gesto non fa una persona. Il cuore di un uomo anela sempre al bene, anche se talvolta esso gli sembra lontano.

Anche di questa tentazione si serve l’Avversario dell’uomo e di Dio: spingere a giudicare; a condannare. Dio non direbbe mai: «Vergognati!», ma sempre e solo: «Fa’ attenzione e cerca di non arrangiarti da solo!». Il nemico di Dio ci spinge ad isolarci nella vergogna; ci spinge ad essere soli; e spinge gli altri ad isolarti, puntandoti il dito, mentre Dio non ci lascia mai soli.

Occorre sempre vigilare sulla tentazione della solitudine: l’uomo è fatto per la comunione, perché Dio stesso è Comunione d’Amore nella Trinità che Lo unisce.

Questo è il grande annuncio del Vangelo: Dio è Amore e ama ed amerà sempre i Suoi figli, che siamo noi, che siamo tutti noi!

Per questo occorre annunciare il Vangelo, per sconfiggere l’astuto tentatore che cerca di impedire l’annuncio dell’Amore divino, che libera l’essere umano dal subdolo inganno, che da sempre usa con astuzia l’antico serpente: «Lascia perdere! Fatti furbo come me: fai da solo!». È la tentazione di sempre, ma sempre è stato sconfitto, sin dall’inizio.

Mi ha sempre affascinato pensare che Dio, in realtà, non ha condannato né Adamo né Eva, piuttosto ha preso sul serio il loro desiderio, pur soffrendone, perché sapeva e sa come non è facile il cammino dell’essere umano verso la divina Dimora.

Ad Adamo disse che avrebbe dovuto coltivare la terra, dalla quale sarebbe germinato quel grano, che, divenendo pane, sarebbe stato il Pane della salvezza, il «Corpo, offerto in sacrificio per noi».

Ad Eva che aveva voluto la vita e la libertà, affidò nel grembo la vita di ogni essere umano; a lei che aveva voluto mangiare dell’albero, diede il potere di dar da mangiare ad ogni figlio d’uomo; a lei affidò la cura della casa e del gregge, perché allevasse quegli agnelli, tra i quali sarebbe venuto l’«agnello che toglie i peccati del mondo».

Dio non condanna mai! Certo, rimettere sul giusto sentiero, quello che si era perduto. E ogni ritorno è sempre faticoso, come ben sa chi, salendo verso la vetta della montagna, sbaglia il sentiero, o lo smarrisce.

Certo, ci vuole un po’ di fatica, ma è bella la fatica di chi ritrova il sentiero per la vetta, come bella fu la fatica di Adamo, quando raccolse i primi semi di grano e pensò al loro futuro; come bella è (da sempre) la fatica di Eva, il dolore di ogni madre, che sempre dimentica il dolore del parto, quando il bimbo le giace sul grembo.

Per questo il Papa riflette: «Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita».

Come sono vere queste parole. Sono parole di certezza, di “vittoria”, di gioia.

Anche per questo il Papa nelle dense righe di questo paragrafo ci raccomanda di avere uno sguardo “diverso”, uno sguardo positivo, che renda sicuri.

Tre, infatti, egli dice, sono gli ambiti dell’impegno, che non possiamo trascurare: il mondo, o meglio «la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce, ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia»; la nostra fragilità e le nostre inclinazioni, «ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via»; «il diavolo, che è il principe del male» (n. 159).

Ci sono qui anche preziose indicazioni: il mondo, il creato, è una «cosa buona» e Dio lo ha costantemente ripetuto nei giorni della sua creazione: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1, 10, 12, 18, 21, 25).

È la “mondanità” ovvero l’uso scorretto del mondo, rispetto al sogno di bellezza con cui Dio lo ha creato e ce lo ha affidato.

Allo stesso modo il Papa ci ricorda che non dobbiamo rattristarci per le nostre “fragilità”: «ognuno ha la sua», anche se occorre stare particolarmente attenti a quattro debolezze: «la pigrizia, la lussuria, l’invidia e la gelosia».

Si tratta – è vero – di “combattere”, ma senza mai dimenticare che l’esito è già scontato. È la gioia, come disse Gesù: «I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse loro: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. […] nulla potrà danneggiarvi» (Lc 10, 17-19).

Mi vengono in mente le parole del cardinale Martini nella Lettera pastorale Tre racconti dello Spirito (1997-1998): «Lo Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; […] C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi nodale della nostra epoca che è la perdita del senso dell’invisibile e del Trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa».

Dio è così buono da lasciar giocare anche il diavolo, perché si diverta un poco, … prima di scoprirsi sconfitto e perdente!

Allora diventa prezioso cogliere i tre ambiti del “combattimento”, dell’impegno, della lotta, che certamente rimane una caratteristica del vivere umano. In fondo anche il nascere stesso è uno sforzo, una fatica: anche per il bimbo non è facile uscire dal grembo e deve impegnarsi quanto sua madre.

Così, potremo affrontare senza paura le tentazioni che l’Avversario, il Diavolo cerca sempre di insinuare, ruggendo come un leone, «che si aggira, cercando chi divorare» (1Pt 5, 8).

Anche questa è un’immagine preziosa: il diavolo non è “dentro” l’uomo, ma fuori di lui, come una belva affamata, che si aggira. Basta stare prudenti e vigilanti, così come a lui, al «Leone ruggente» basta continuamente girarci intorno e ruggire, pensando di spaventarci, ma Pietro continua e raccomanda: «Resistetegli saldi nella fede» (1Pt 5, 9).

Occorre conoscere il nemico, per combatterlo. Occorre conoscere le sue tecniche per non farsene ingannare e sconfiggerlo.

Alcune sono quelle che papa Francesco ci ha indicato, quelle subdole come le gelosie e le invidie, il parlare alle spalle e diffondere il falso.

Sono le armi preferite di colui che è il principe della menzogna e dell’inganno. Per questo occorre amare la verità, perché solo la verità ci rende davvero liberi (Gv 8, 31).

Invece, il principe della menzogna e dell’inganno si serve proprio di questo, a partire da se stesso.

Il più grande inganno, la più grande menzogna che il diavolo ha diffuso e nella quale ha fatto cadere soprattutto il secolo scorso, è stata quella di convincere gli uomini che lui non esisteva, che era un «mito dei preti». Così ingannando ha persuaso milioni di uomini ad ucciderne altrettanti milioni.

Mi vengono in mente le parole di un libro, che ho amato e che consiglierei, Le lettere di Berlicche di Clive Staples Lewis, un convertito, che aveva ben conosciuto le arti del suo ingannatore.

Di quel libro ricordo la lettera che il capoufficio dell’inferno scrive a Malacoda, un “diavolo custode”, un apprendista, per insegnargli come far cadere l’uomo che gli è stato affidato.

«Prima – gli scrive – fagli passare qualche giorno inquieto, dove non gli riesca quasi nulla; poi un giorno fa che si svegli senza aver sentito la sveglia; correrà nella doccia, ma lo scaldabagno non funzionerà e il caffè sarà troppo bollente per berlo senza ustionarsi; correrà all’ascensore, ma quel giorno non funzionerà; scivolato lungo le scale, avrà dimenticato l’ombrello, e pioverà e ci sarà lunga coda per salire sull’autobus; infradicito arriverà in ufficio, sperando che il capoufficio sia come sempre in ritardo, ma quella mattina lo troverà sulla porta con l’occhio severo e il dito eloquente puntato sull’orologio; andrà umiliato alla sua scrivania e qualche collega sogghignerà. Allora griderà: “Adesso basta!”. Proprio allora – scrive il capoufficio all’inesperto Malacoda – hai solo qualche secondo per fargli dire una bestemmia e vincere. Se l’uomo sapesse che quando grida “Adesso basta”, dal Cielo più veloce della luce corre il suo angelo, per stringerlo nelle sue braccia! Hai pochi secondi, Malacoda, perché Lui, l’Altro (Dio, per noi) non può vedere i suoi figli soffrire. Se l’uomo sapesse che quando si sente soffocato dalla disperazione, in realtà ha già vinto».

Mi ha sempre affascinato questa lettera: quando pensi di non farcela più, sei a qualche secondo dalla vittoria! Resisti ancora un istante, e vincerai!