Dialogare nell’essere ciascuno missionario verso l’altro


Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Vice delegato vescovile per il dialogo interreligioso – referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani


A partire dalle riforme del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha preso le distanze dal cosiddetto “proselitismo”, ovvero un atteggiamento di conquista nei confronti dei non-cattolici, cristiani, di altra religione o non credenti, in base al quale si giustificavano anche comportamenti discutibili pur di convincerli a chiedere il Battesimo ed entrare nella comunità cattolica.

In nome del proselitismo, ad esempio, in passato si offrivano denaro e comodità occidentali a popoli meno sviluppati tecnologicamente, oppure si cercava di influenzare i governanti perché adottassero il cattolicesimo come religione ufficiale dello stato, ed in tempi più recenti anche il dialogo intercristiano ed interreligioso venne usato come una sorta di “cavallo di Troia”, per entrare in confidenza e poi persuadere a convertirsi.

Il Concilio, che ci esorta in Nostra Ætate a guardare con stima i fedeli di altra religione, e tanto più i cristiani di altre confessioni, non poteva condividere la prospettiva del proselitismo. Un discorso che viene esteso anche ai non credenti, e che ha solide basi teologiche in due affermazioni fondamentali del Concilio stesso: da un lato la professione di fede nella capacità salvifica di Dio che viene offerta a tutti, al di là dello stesso Battesimo; dall’altro il riconoscimento della piena libertà di coscienza di ogni persona, dono di Dio che Egli stesso rispetta e che noi non possiamo violare né con la forza né con l’inganno, neppure a fin di bene.

Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, riconosciamo con gioia un certo progresso nella cultura occidentale, e italiana in particolare, quanto al rispetto delle opinioni diverse ed alla ricerca di una integrazione che continui a riconoscere e valorizzare le differenze in ogni ambito, compreso quello religioso. Oggi non possiamo più usare la parola “cristiano” come sinonimo di “persona”, come accade in molti dialetti e modi di dire tradizionali, perché abbiamo maturato una più chiara comprensione della grande pluralità insita nella storia umana, ed oggi sperimentabile anche solo passeggiando nelle nostre strade, incontrando uomini e donne da ogni parte del mondo che vivono fianco a fianco.

Il proselitismo è, spero, in buona parte un problema risolto, almeno dal punto di vista religioso. Sopravvive, purtroppo, in forme culturali e politiche che ricordano molto il vecchio colonialismo europeo: possiamo tutti facilmente richiamare alla mente qualche politico o personaggio famoso che abbia detto frasi come “per vivere in Italia bisogna diventare italiani”, o altre simili. In questo senso anche oggi è molto forte il dibattito sull’assimilazione culturale, e sulla volontà di alcuni di imporre tradizioni, modi di fare, modi di esprimersi, addirittura di vestire e di cucinare, e riemerge persino un certo desiderio di imporre la conversione alla nostra religione prevalente.

Ma tutto questo non appartiene alla Chiesa, e non fa parte del vissuto cattolico di oggi. Anzi, dovremmo sentirci interrogati profondamente e chiamati ad essere evangelizzatori del mondo politico e della società, per promuovere una conversione dalla ricerca dello scontro di civiltà alla costruzione di ponti per il dialogo rispettoso e una convivenza fatta di sana curiosità reciproca e sincero desiderio di imparare gli uni degli altri.

Nella Chiesa, invece, da alcuni decenni attraversiamo un tempo di crisi legato proprio all’annuncio missionario, come se il rifiuto del proselitismo avesse portato a guardare con sospetto ogni tentativo di proporre il Vangelo e la vita cristiana a chi già non li conosce e non li pratica. Così si accumulano, sin dai tempi del Concilio, i documenti e gli interventi dei Papi e delle Congregazioni vaticane per ricordare ad ogni cattolico l’impegno ad essere sempre missionario.

È una sfida attuale, e dobbiamo raccoglierla proprio a partire dalla logica del dialogo. Quando veniamo a colloquio con qualcuno apriamo uno spazio di scambio; lo stesso termine dia-logo indica una trasmissione di parole, un intercorso linguistico nel quale il linguaggio diventa veicolo per uno scambio di esperienze, idee e quant’altro. Uno scambio sempre a doppio senso, dove ciascuno parla ed ascolta, dona e riceve contributi. Se invece è a senso unico, noi italiani lo chiamiamo monologo, lezione, esposizione, predica, ecc… non certo dialogo!

La logica del dialogo è quindi quella di uno scambio vicendevole, dove ciascuno dei partecipanti è attore protagonista ed ha gli stessi doveri e gli stessi diritti degli altri. Cominciamo forse ad intuire una dimensione essenziale del dialogo che, già nel 1984, il Segretariato per il dialogo ecumenico e interreligioso volle chiarire nel documento “Dialogo e missione”. Così scrissero: «Anche nel dialogo, il cristiano normalmente nutre nel suo cuore il desiderio di condividere la sua esperienza di Cristo col fratello di altra religione. È altrettanto naturale che l’altro credente desideri qualcosa di simile».

In questo breve inciso, il Segretariato prende atto e mette in evidenza qualcosa che tutti probabilmente sappiamo, ma che è facile trascurare: poiché siamo tutti simili nell’umanità e nello stare a questo mondo, quando dialoghiamo in termini religiosi ciascuno desidera condividere i tratti più belli e preziosi di questa esperienza fondamentale che è la fede. E dicendo “ciascuno”, intendiamo tanto io quanto gli altri.

Quando io, credente cattolico, incontro un fratello che crede nell’islam, ci parliamo con affetto e impariamo a conoscerci sempre meglio grazie a quanto ciascuno condivide a parole e nei gesti. Ovviamente, quando parliamo del nostro cammino di fede non stiamo spiegando dei teoremi geometrici, ma raccontando esperienze personali, convinzioni profonde, dimensioni fondamentali della nostra vita che ci condizionano e sulle quali abbiamo costruito molto di noi stessi, o addirittura abbiamo posto le fondamenta della nostra intera vita. Non possiamo parlarne in modo distaccato, né essere indifferenti al modo in cui l’altro percepisce e comprende quanto sto comunicando. Tutto ci tocca sul vivo, perché ce ne importa tantissimo, e non possiamo né dobbiamo fare finta che non sia così. Quello che ci è chiesto, è ricordare che anche il nostro interlocutore vive e sperimenta le stesse cose, anche lui è affezionato alla sua esperienza religiosa e desidera condividerla con me, e sarebbe felicissimo se io un giorno arrivassi a condividerla. Quante volte mi è capitato che un amico musulmano, vedendomi intento a leggere il Corano e studiare l’islam, mi dicesse qualcosa del tipo: “quando avrai imparato abbastanza, vedrai che diventerai musulmano”, ed io ho imparato a percepirlo come un grande complimento, un attestato di stima e di affetto. Dal suo punto di vista di credente nell’islam, mi sta dicendo che vede in me un credente serio, che si affatica nelle cose di Dio ed ha le capacità per conoscerlo sempre meglio, e Dio mi ricompenserà donandomi la gioia della conversione.

Allo stesso modo, sempre con parole chiare e fraterne, anch’io ho il diritto e il dovere di rallegrarmi quando una persona non cattolica desidera conoscere e comprendere più a fondo la mia tradizione, ed è meraviglioso che possa augurarmi la sua conversione, affidandola sempre alla sua libertà di coscienza.

Il dialogo non può svilupparsi in un contesto nel quale cerchiamo di censurare noi stessi e/o gli altri, dove abbiamo paura di esporci o lo facciamo in modo aggressivo; il dialogo è un’esperienza che ci educa a riconoscere nell’altro un fratello o una sorella che ci assomiglia profondamente, e che vive in sé le medesime dinamiche ed esperienze che vivo io. Il vero dialogare fra credenti suppone il vero credere, ed è quello di due persone che tengono moltissimo alla propria esperienza di fede e desiderano condividerla, apprezzando che anche per l’altro sia una cosa altrettanto seria.

Dialogare è riconoscere nell’altro un mio simile in tutto e per tutto, un amico e un fratello a cui voglio annunciare ciò che ho di più prezioso, la mia fede, e dal quale mi aspetto la stessa stima e lo stesso amore, che mi mostrerà volendo condividere con me la sua esperienza religiosa. Per questo non può esserci opposizione tra dialogo e missionarietà, al contrario sono inclusi l’uno nell’altra, perché non esiste vero dialogo che non sia anche un’esperienza di missione verso l’altro, né esiste missione che non debba costruirsi nella forma di un dialogo rispettoso ed amorevole. 

Numero di Aprile 2022