Credenti e non credenti


Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Vice delegato vescovile per il dialogo interreligioso – referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani


«Io chiedevo non se siete credenti o non credenti, ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate».

Qualche anno fa, nel pubblicare l’opera omnia del cardinal Martini di Milano, l’editore Bompiani metteva in risalto questa sua testimonianza sul senso profondo del dialogo con i non credenti. Un dialogo particolare e necessario tanto quanto quello con gli altri cristiani e con i credenti di altre religioni, ma che va rispettato nella sua specificità rispetto agli altri.

Bisogna infatti ammette che, nel linguaggio comune e a volte anche in quello ecclesiale, non è insolito confondere i non credenti con i diversamente credenti. Siamo in parte scusati dal fatto che, sino ad oggi, i non credenti siano stati un’esigua minoranza degli interlocutori della Chiesa, poiché nella storia dell’umanità la negazione decisa della fede è stata un’esperienza insolita e riservata a persone davvero particolari. Solo in tempi recenti, potremmo dire dopo la Rivoluzione Francese e il diffondersi di un certo illuminismo razionalista ed antireligioso, è diventato sempre più comune affermare di non essere credenti. Almeno qui, nel nostro angolo occidentale del mondo, poiché nella gran parte delle società umane la fede resta un tratto quasi scontato della vita.

Essendo credenti in Cristo che abitano società laiche, sempre più plurali, siamo oggi chiamati a tenere conto anche del dialogo necessario con coloro che ritengono di non condividere con noi alcun afflato religioso. Come ultima precisazione, permettetemi di ricordare che i non credenti non sono un gruppo coeso e uniforme, ma sperimentano la non credenza con un’ampia gamma di gradazioni diverse. Tra loro troviamo alcuni che non credono in Dio, ma sentono l’urgenza di porsi domande religiose e si chiedono con sincerità come mai altre persone siano invece credenti. Vi sono poi altri che invece non solo si dichiarano non credenti, ma ritengono che l’aver fede sia un errore dannoso, e perciò si impegnano nel tentare di convincere i credenti ad allontanarsi dalla religione. E poi altri casi ancora, come quello di persone che negano il fatto religioso istituzionale, ma riconoscono la bontà della vita spirituale personale, e via dicendo…

Il dialogo con i non credenti, quindi, si mostra da subito come un caso particolare nella vocazione cristiana all’incontro ed alla fratellanza possibile con gli altri uomini e donne che ci sono prossimi. Implica un’attenzione ancor più alta del solito alla storia personale di chi incontriamo, l’impegno a guardarsi negli occhi con calma, a procedere cautamente nell’esplorare i rispettivi vissuti, a darsi tempo per maturare nella conoscenza reciproca. Un non credente serio, infatti, ha certamente molto da raccontare sul come e perché abbia sviluppato questo sguardo sulla vita e sul mondo, e come credeva il cardinal Martini, è persona degna di essere ascoltata perché ci aiuta a porci nuove domande. Fu così che nacque a Milano l’esperienza della “Cattedra dei non credenti”, nella quale il Vescovo invitava a colloquio pubblico persone che si autodefinivano tali. Il servizio della Chiesa verso i non credenti fu da lui interpretato anzitutto come un servizio alla verità umana, ovvero una provocazione a ragionare seriamente insieme perché ciascuno elabori fondamenti credibili alle proprie scelte, tanto nella direzione della fede quanto della non credenza.

Accanto a questa prospettiva, già in sé innovativa e feconda per la Chiesa contemporanea, Martini fu anche portatore di un’altra interessante visione. Sempre nel testo Bompiani troviamo questa riflessione del cardinale: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa».

Portando il dialogo tra credente e non credente all’interno di ogni cuore umano, Martini rende ragione di ciò che in fondo tutti noi sperimentiamo, a cominciare dai grandi santi: nella vita, talvolta ci troviamo a camminare con profonda fede e serena fiducia in Dio, per poi passare a periodi di dubbio, di domande assillanti, o di vera e propria perdita della fede. Grazie alla pubblicazione dei suoi scritti personali e di interviste riservate, oggi sappiamo che anche una figura religiosa come Madre Teresa di Calcutta visse sulla propria pelle una profonda crisi di fede, durata diversi anni.

La non credenza non deve farci paura, ma al contrario siamo chiamati a metterla in conto come parte della nostra umanità, situazione inevitabile e costitutiva del nostro abitare in un mondo che è abitato da Dio, ma ne resta temporaneamente separato. Almeno fino al giorno del Giudizio e della Salvezza.

Lo spazio della non credenza è quindi un terreno di confronto con tutti i nostri fratelli e sorelle nell’umanità, anche con i credenti, se questi sono abbastanza coraggiosi da ammettere di avere in sé quella voce non credente che di tanto in tanto si fa sentire.

Può sembrare ovvio alle nostre orecchie, ormai abituate a certi discorsi, ma dobbiamo ricordare che si tratta di un approccio recente ed ancora poco diffuso nel mondo. In molte culture e tradizioni, anche a maggioranza cristiana e cattolica, si ritiene che l’aver fede sia l’unica condizione naturale dell’essere umano, ed il fatto di non credere costituisca un difetto di qualche tipo. Forse anche noi, sotto sotto, ne siamo convinti. Giusto quattro anni fa, ad esempio, mentre mi trovavo all’estero per un periodo di studi, seguendo una discussione televisiva su una rete locale assistetti ad un dibattito fra un giovane ed un anziano a proposito delle difficoltà di dialogo tra le generazioni. Ad un certo punto il confronto toccò la dimensione religiosa, ed il giovane affermò di non essere credente e di non capire come invece l’anziano fosse riuscito a mantenersi fedele per tutta la vita a pratiche e abitudini religiose impegnative, e che egli stesso non sapeva del tutto spiegare. L’anziano, in risposta, suggerì al ragazzo di andare a farsi visitare da uno psicologo, poiché evidentemente doveva avere dei problemi irrisolti che lo rendevano ateo. A sorprendermi, più che altro, fu come il conduttore della trasmissione e la maggior parte del pubblico applaudissero e fossero d’accordo con il consiglio dell’anziano.

Essere non credente sembrava, agli occhi di tutti, un difetto, una devianza rispetto alla normalità di nascere credenti e restarlo tutta la vita. Al contrario, e questo a partire dal dato teologico cristiano della piena libertà garantita dal Creatore a tutte le sue creature, dobbiamo ammettere che anche la non credenza è una possibilità altrettanto legittima della fede. Riprendendo un’ultima volta Martini, potremmo dire che ad essere innaturale è semmai il fatto di non farsi alcuna domanda, di non esercitare la propria libertà e le risorse personali nel porsi la questione religiosa e di fede per giungere ad una scelta personale convinta e motivata.

In questo percorso storico che la Chiesa ha affrontato con fatica, e che solo recentemente le ha permesso di riconoscere i non credenti come interlocutori necessari accanto agli altri, una parte importante l’ebbe anche papa Giovanni XXIII, che nel 1963 per la prima volta indirizzò l’enciclica sulla pace “Pacem in terris” a “tutti gli uomini di buona volontà”. Per quanto piccolo, fu un passo decisivo perché cercò la base per un dialogo non sulla comune condivisione della fede cristiana o della fede più in generale, ma sulla volontà di fare del bene.

Papa Roncalli offrì alla Chiesa un nuovo punto di partenza, un principio antropologico universale fondato sul nostro comune stare al mondo come esseri umani. Fu l’inizio di un nuovo ed ancor più profondo livello di comunicazione e scambio, di condivisione che mirabilmente il Concilio ha reso nel prologo addirittura poetico della “Gaudium et Spes”: 

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia».

Un testo di una tale potenza che forse ancora non ha avuto l’eguale, e noi abbiamo il dono straordinario di poterlo portare con noi nella vita di tutti i giorni. Sì, noi abitiamo il tempo benedetto in cui il carattere della comune umanità si dispiega al nostro sguardo di credenti come terreno da coltivare con l’amore di Cristo e la saggezza del Vangelo. Ricordarci dei non credenti non è solo aggiungere una categoria in più agli impegni ufficiali del dialogo, ma una conversione del nostro sguardo per ricordarci che nessun essere umano può essere ridotto alla sola appartenenza religiosa, poiché in lui alberga una libertà invincibile, dono di Dio, che sempre si interroga e non è mai sazia di risposte, ed è il motore che ci costringe a camminare nella storia e a non accontentarci di alcun sistema religioso. Grazie alla provocazione della non credenza, noi scopriamo un ulteriore livello di solidarietà, e siamo provocati alla conversione continua del nostro modo di essere credenti, così che il vero dialogo sia autentico scambio nel quale ciascuno aiuta gli altri a mettersi in discussione e maturare un po’ di più.