Annalena Tonelli: una donna che ha fatto fiorire il deserto


Eliana Marcora: Collaboratrice Familiare del Clero – Coordinatrice regionale per l’Associazione della regione Lombardia 


Forse qualche volta siamo distratti nell’ascolto dell’omelia: diamo per scontato ogni cosa e non ci aspettiamo nulla di nuovo dalle parole del sacerdote. Eppure, a volta lo Spirito Santo ci interpella con messaggi insondabili proprio in quelle occasioni quotidiane. In un’afosa messa serale di agosto, 

quando il mio parroco DON GIORGIO ha raccontato di Annalena Tonelli, una laica missionaria prodigatasi in Africa nella lotta contro le povertà e le forme di ingiustizie, ho colto nella sua voce il fascino di una testimonianza quotidiana vissuta per il Vangelo e lo straordinario percorso di carità, custodito al riparo da ogni enfatizzazione mediatica.

Allora ho voluto approfondire la conoscenza di questa laica missionaria che fu testimone del Vangelo prima in Kenia e poi in Somalia.

“Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati da quando ero bambina. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessa. Per Lui feci una scelta di povertà laicale”.

Annalena Tonelli nacque a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Iscritta alla Facoltà di Bologna Giurisprudenza Bologna si formò nell’Azione Cattolica forlivese e divenne presidente della FUCI.

Il clima postconciliare aiutò la sua vocazione laicale e irrobustì la sua idea di servizio. Mossa da un’ispirazione evangelica profonda, sull’esempio dell’Abbé Pierre organizzò campi di raccolta di materiale, convegni e incontri e da grande trascinatrice contribuì a far nascere a Forlì il “Comitato contro la Fame nel mondo” che ancora oggi sostiene le Missioni. Si laureò in legge a Ferrara, con una tesi su “La responsabilità penale del minore” e andò a Londra a perfezionare l’inglese. Desiderava andare in India, ma i familiari erano contrari; dietro consiglio di un’amica l’anno successivo partì per Nairobi (Kenya), come insegnante di una scuola superiore delle Missioni Consolata di Torino. Fece domanda per lavorare alle dipendenze dirette del governo del Kenya, a condizione di essere assegnata a Wajir, villaggio nel deserto che aveva in precedenza visitato e scelto in quanto rispondeva alla sua esigenza di predicare il Vangelo con la vita nel mondo mussulmano, secondo la spiritualità di Charles de Foucauld. Con un’amica, Maria Teresa Battistini fondò una comunità di missionarie laiche ed iniziarono a seguire i malati poliomielitici. Annalena, pur non avendo una formazione medica riuscì a trasformare la sua esperienza in un punto di riferimento. Si dedicò a debellare la tubercolosi, malattia diffusissima in Kenya. Lottarono quotidianamente per vincere il dolore innocente, vivendo in un eremo, in pieno deserto. Dalla parola di Dio, dal mistero del dolore di Cristo sofferente attinsero lo Spirito di fortezza che le sostenne. 

Nel 1976 il governo kenyano le affidò la direzione di un progetto pilota; Annalena con scarsi mezzi iniziò la costruzione del Centro di riabilitazione “Beata Angelina”, un ospedale che fu un’opera di estremo successo. Si dedicò, con un incessante lavoro accudendo 1500 pazienti e ottenendo risultati insperati: con le poche compagne che condividevano quello stile di servizio, in un contesto totalmente islamico e socialmente arretrato erano guardate con sospetto perché bianche, cristiane, donne. Nel 1984 il Paese fu attraversato dalla guerra civile che culminarono nei massacri di Wagalla, con lo sterminio di alcune tribù in cui furono uccise e torturate migliaia di persone. Annalena Tonelli fu coinvolta nel recupero dei corpi e nella cura dei feriti. Ma diventò il bersaglio di numerose accuse e attentati. Fu dichiarata persona non gradita al Governo, fino ad essere espulsa dal Kenya.  Ritornò per un qualche anno in Italia, ritirandosi in preghiera nel silenzio e nella solitudine di eremi e monasteri tra la Romagna e la Toscana, rafforzando la sua vocazione di dedicarsi agli ultimi.  Non apparteneva a nessuna congregazione o organismo religioso o laico: aveva semplicemente scelto di dedicarsi a Dio e al prossimo, senza etichette e simboli religiosi. Impegnata a fare, più che a parlare è stata definita donna di grandissime doti, messe a servizio di un ideale.  

La vinse però il mal d’Africa e ritornò in Somalia, – secondo solco della sua missione – a Borama, riuscendo a rimettere in funzione un vecchio dispensario della TBC, occupandosi di programmazione, sviluppo e valutazione nel Programma di salute Primaria.  A questo lavoro affiancò molteplici iniziative collaterali: una scuola per bambini sordi, la prima scuola speciale in Somalia e l’assistenza ai malati mentali. In quegli anni ci fu la diffusione dell’AIDS: Annalena accolse i malati, ma questa accoglienza suscitò forti contrarietà in molti ambienti somali che l’accusavano di contagiare con questi malati ambienti sani. Collaborò con l’OMS (Organizzazione mondiale Sanità) che le fornì tutti i farmaci antitubercolari per progetti sanitari, lei si applicò con tale dedizione e competenza che nell’anno 2000 si registrò un calo vertiginoso della malattia. Aprì scuole di alfabetizzazione e di Corano per i malati. 

Attuò un’intensa attività di clinica nei villaggi, organizzò incontri per opporsi alla pratica della mutilazione dei genitali femminili. Seguendo un costante aggiornamento ottenne diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Curò anche i ciechi e i malati di AIDS.  Fu osteggiata da alcuni capi, che tentarono di ostacolare, per questioni economiche i suoi rapporti con le Nazioni unite. Dimostrazioni, sassaiole, cartelli la colpiscono. Ricevette però la solidarietà della popolazione, del Ministero dell’Interno e della Sanità che la sostengono e le assicurano solidarietà e protezione. 

Nel 2001 venne invitata a Roma, in Vaticano dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute. Accettò soprattutto per le pressioni che le fecero gli amici di Forlì e raccontò la sua testimonianza considerata il suo testamento spirituale, in cui l’esperienza di cura è narrata come vocazione evangelica. A Ginevra ricevette dall’Alto Commissariato dell’ONU il premio Nasen per i 35 anni di dedizione alle comunità somale. Nel 2002 il presidente Ciampi le conferì il titolo di cavaliere della Repubblica. Mantenne rapporti epistolari con parenti ed amici: questa testimonianza è l’unica fonte preziosa per comprendere un cammino tenuto volutamente nascosto.

Nel 2003 un ufficiale di polizia, inviato dal Governo le annuncia che si sta preparando il suo ritorno trionfale in Kenya, da dove era stata allontanata durante i massacri. Intanto a Borama alcune frange fondamentaliste ostacolavano la sua attività colpendo anche l’ospedale da lei gestito.

5 ottobre 2003, mentre compiva l’ultimo giro tra gli ammalati di Borama, Annalena venne uccisa con un colpo di pistola alla nuca. Morì dopo mezz’ora e fu inutile il dono da parte dei malati del loro sangue. Le responsabilità non furono mai accertate.

Il suo corpo fu trasportato in Kenya e le sue ceneri furono sparse, come aveva espressamente chiesto sull’eremo del Wajir, suo primo ospedale. 

La radice della sua notevole attività era nella preghiera contemplativa, nella meditazione dei testi spirituali e nell’Eucaristica che conservava nella stanza dove viveva. Iniziò la sua missione in una società a maggioranza nera, mussulmana, dove contano i maschi, i patriarchi. Il suo primo gesto di carità fu quello di sostituire l’acqua salata dell’ospedale di Wajir con l’acqua dolce della cisterna posta sopra la sua casa, nel prendersi cura di malati ed emarginati, brandelli di una umanità sofferente. I messaggi che ci ha lasciato sono poche parole: “La mia fede senza l’amore è inutile” e “Se non amo Dio muore sulla terra”. Scriveva che in Africa si può venire per l’uomo, ma si resta per Dio. È stata testimone di Cristo non soltanto nell’aiuto pratico ad ogni bisognoso, ma in un ascolto discreto, logorante, mai stanco di storie dolorose, di sofferenze nascoste. Lo slancio, il calore e il sorriso di Annalena sono stati di aiuto e incoraggiamento di una fede di cui lei era testimone silenziosa, nel rispetto della non fede degli altri, nell’accoglienza di ogni fratello in umanità. Scrisse numerose lettere che vennero pubblicate in tre volumi, con la prefazione dalla sua amica Battistini.

Dal suo testamento spirituale: “Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Cristo e i poveri in Cristo. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamento di contributi volontari per quando sarò vecchia. Non sono sposata, volevo essere tutta per Dio…Ai piedi di Dio noi ritroviamo ogni verità perduta: tutto ciò che era precipitato nel buio diventa luce, tutto ciò che sembrava un valore appare nella sua veste vera e noi ci risvegliamo alla bellezza di una vita intessuta di bene, aperta agli altri, affinché gli uomini siano una cosa sola…”

Da uno scritto di Antoine de Saint-Exupéry “Terra degli uomini” Annalena prese lo spunto per definire se stessa e la propria vocazione “giardiniera degli uomini”. È stata una donna che con la sua compassione e dedizione ha fatto fiorire di fede e speranza il deserto.

Invito il lettore a completare la riflessione leggendo l’articolo di S.E. mons. Delpini, pubblicato su questo numero della Rivista. Ci indica, in maniera eloquente le coordinate concrete per praticare l’amore al prossimo, proprio come Annalena ci ha testimoniato.