I preti sposati delle Chiese orientali


Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Delegato vescovile per il dialogo interreligioso – Referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani


A partire dalle indicazioni bibliche sull’ordinazione di uomini sposati, le Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno poi sviluppato prassi in parte simili ed in parte diverse. Oggi gli elementi di diversità sono più evidenti, in particolare grazie alle migrazioni che hanno accorciato le distanze. Da dove vengono queste differenze? Cosa comportano? Può questo confronto di tradizioni diventare una risorsa ecumenica e pastorale? Vediamolo insieme.

Ad unire strettamente le Chiese d’Oriente con la Chiesa Cattolica, come già abbiamo più volte ricordato, ci sono i Sette Sacramenti, riconosciuti e condivisi. Certo vi sono differenze anche evidenti nella forma dei riti, ma le parole utilizzate ed il significato dei gesti sono pressoché gli stessi tanto nel mondo cattolico, quanto nell’Ortodossia, tra i Copti africani e nelle Chiese Antico-Orientali del Medio Oriente e dell’Asia. Tutti questi gruppi cristiani conoscono e praticano l’iniziazione cristiana di Battesimo/Confermazione/Eucaristia, la Confessione e l’Unzione degli Infermi, l’Ordine Sacro ed il Matrimonio, e vi sono numerosi accordi fra le Chiese per garantire in tutto o in parte il riconoscimento della validità dei Sacramenti celebrati dalle altre, anche se su questo punto resta ancora molta strada da fare per giungere ad una piena comunione.

Uno degli elementi di differenza, che anche in Italia comincia ad essere conosciuto e suscita sempre curiosità, è la pratica tipicamente orientale di ordinare preti anche uomini già sposati. In particolare i preti ortodossi e i preti cattolici di rito orientale, che ormai numerosi sono presenti nel nostro Paese per seguire i gruppi di migranti dall’Est-Europa e dal Medio Oriente, sono per la maggior parte preti con moglie e figli, e spesso proprio questi ultimi, frequentando le scuole, creano dei contatti con noi Cattolici occidentali.

Per questo motivo ho scelto di scrivere qualche pagina a partire non tanto dagli studi sui cristiani orientali, quanto dai molti colloqui e dalle amicizie che in questi anni ho potuto coltivare con preti orientali sposati. La mia speranza è che, trattando di questioni molto concrete e quotidiane, possa offrire a voi lettori una comoda finestra a cui affacciarvi per comprendere qualcosa in più di questa diversa modalità di essere preti.

Solo come introduzione, devo chiarire come gradualmente l’Occidente e l’Oriente della Cristianità hanno intrapreso strade diverse sulla questione. Anzitutto teniamo presente che, in principio, le stesse Lettere di Paolo e gli altri testi del Nuovo Testamento ci raccontano di come fosse normale trovare i Ministri fra uomini di una certa età, sposati e con figli. Del resto, ricordiamolo, nel mondo antico il matrimonio era sostanzialmente un obbligo, e la scelta di Gesù di non prendere moglie gli aveva attirato insulti e dileggio; di conseguenza, se per guidare la comunità si richiedeva una certa esperienza di vita, era inevitabile che la grande maggioranza degli uomini adulti e stimati fossero anche sposati. Ciò che emerge già nel capitolo 3 della Lettera a Timoteo è che, una volta ricevuto l’Ordine, il candidato non possa più contrarre nuovi matrimoni (probabilmente nel caso, allora frequente, della vedovanza in età relativamente giovane). Queste indicazioni bibliche vengono ufficializzate nel Concilio di Elvira del 306, in Spagna, recepito anche dalle Chiese orientali. Da lì comincia la differenza: in Occidente, nel 385, Papa Siricio stabilisce che sia permesso ordinare preti e vescovi solo uomini celibi, mentre fino ad oggi resta la possibilità di ordinare diaconi sposati. In Oriente, invece, il celibato diventa un segno distintivo dei monaci, mentre ai preti resta la libertà di scegliere se attendere il matrimonio prima di chiedere l’ordinazione, oppure venire ordinati e vivere da celibi. Si impone però anche la regola di scegliere i vescovi solo tra i preti celibi. Il problema è simile tanto in Oriente quanto in Occidente, ovvero evitare che si creino delle dinastie di parroci e di vescovi che trasformino la Chiesa in un feudo medioevale.

Arriviamo così al nostro tempo, in cui molti preti orientali sono sposati e, a Dio piacendo, hanno anche dei figli. Questi uomini devono affrontare la sfida di essere contemporaneamente mariti, genitori e pastori, o come spesso ho sentito dire: “Padri in casa e Padri in Chiesa”, prendendosi cura tanto dei figli naturali che di quelli spirituali. In entrambi i casi il modello proposto nella formazione di molte comunità orientali prende spunto dalla Preghiera del Signore, e dall’attributo fondamentale di Padre con cui ci rivolgiamo a Dio. Chi avesse la possibilità di frequentare una comunità orientale e dialogare con i preti ed i fedeli, si accorgerà presto di come la figura del prete non sia esattamente sovrapponibile al parroco cattolico. Il prete orientale è anzitutto legato alla liturgia, ai Sacramenti e alla predicazione, mentre l’aspetto amministrativo, caritativo e di animazione della comunità è meno presente e lasciato per lo più ai carismi personali. Il prete orientale celebra, istruisce e confessa, concentrando l’azione pastorale nei giorni festivi; nel resto della settimana deve infatti occuparsi della sua famiglia, e non è insolito che abbia anche un altro lavoro per provvedere alle maggiori spese date dalla moglie e dai figli.

La moglie, infatti, soprattutto nei paesi di tradizione orientale, di solito dedica la vita ad assistere il marito nel suo Ministero e ad occuparsi della famiglia; di solito non è socialmente ben visto che la moglie di un prete abbia anche un proprio lavoro. Anzi, la famiglia del prete è considerata il modello per le altre famiglie della comunità, e ci si aspetta che sia molto legata alla vita della Chiesa ed al rispetto delle molte piccole attenzioni che il Cristianesimo orientale richiede, cominciando dai giorni di digiuno per poi passare al modo di vestire delle donne, al modo di parlare, ed altro ancora.

Spesso ho sentito dire, anche dalle mogli stesse, che è molto diverso sposare un uomo che ha già deciso di diventare prete, dallo sposarne uno che solo in un secondo momento scopre questa vocazione. La moglie, infatti, deve sposare non solo l’uomo, ma anche il suo Ministero, e per questo è molto più facile avere a che fare con qualcuno che ha già preso una decisione. Così anche i seminari orientali hanno spesso delle attività dedicate specificamente a dare ai seminaristi l’occasione di frequentare ragazze interessate a sposare un prete, tra le quali si spera di trovare l’anima gemella. Per certo essere la moglie di un prete è a suo modo una vocazione, e non è per tutte.

Più complicata è la situazione dei figli, i quali a differenza delle mogli non possono scegliere se far parte o meno della famiglia di un prete, ma vi si trovano sin dall’inizio. Molti preti, con le loro mogli, sperimentano la complessità di crescere i figli cercando il difficile equilibrio tra il non isolarli dagli altri bambini ed il mantenere la specificità della loro famiglia, tutta coinvolta nel servizio del Ministero Ordinato. Tra alti e bassi, dobbiamo certamente riconoscere il grande impegno di queste famiglie, ed averne stima e simpatia. A volte ho sentito dire da preti sposati che il grande riferimento spirituale delle loro famiglie è la Trinità. Mi sarei aspettato la Santa Famiglia, ma anche questo fa parte delle differenze con l’Oriente cristiano. La Trinità è per le famiglie dei preti un esempio di come coniugare l’unità e la diversità tra marito, moglie e figli; ad aiutarli è anche il fatto che in diverse lingue orientali lo Spirito Santo si declina al femminile, e la spiritualità orientale ha maggiormente riflettuto su come la stessa figura di Maria possa essere, con le debite cautele, un’icona vivente dello Spirito. 

Avviandoci ad una conclusione, conviene sottolineare che la possibilità di ordinare prete un uomo sposato non sembra aiutare in alcun modo il numero delle vocazioni, che restano legate ad altri fattori, ed in ogni caso suscita perplessità discutere un argomento così delicato a partire da un calcolo di presenze. Dal punto di vista del dialogo ecumenico, invece, i preti sposati sono un soggetto prezioso di confronto e di condivisione fra le Chiese: la Chiesa Cattolica ha infatti nel suo clero alcune migliaia di preti sposati di rito orientale, i quali vivono la stessa situazione degli altri preti orientali; allo stesso modo, nelle Chiese orientali non cattoliche, vi sono preti secolari che scelgono di restare celibi, e di conseguenza vivono una vita analoga a quella della maggior parte dei nostri preti. Come spesso accade, anche in questo caso non si tratta di scegliere fra le due situazioni quale sia la migliore, ma di custodirle ed accompagnarle entrambe, ricordando che la vera ricchezza del Cristianesimo è la sua capacità innata di tenere insieme elementi diversi, trasformando le alternative in sinergie. 

Il massimo bene, per tutte le Chiese, è la riscoperta della bellezza e del valore tanto dell’esperienza dei preti celibi che di quelli sposati, e come essi siano chiamati ad operare insieme per testimoniare il Vangelo, guidare le comunità, amministrare i Sacramenti e dare il buon esempio, non facendosi concorrenza ma collaborando per il maggior bene di tutti.