Lo stile della sinodalità, tra Oriente e Occidente
Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Delegato vescovile per il dialogo interreligioso – Referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani
Recentemente è diventato comune nella Chiesa Cattolica parlare di sinodalità. Il termine è di origine orientale, e fa riferimento a tradizioni antiche e ad un certo modo di immaginare il cammino di comunione nella Chiesa. Riscoprire i caratteri orientali della sinodalità ci aiuta a evidenziare alcuni elementi utili alla continua conversione delle nostre assemblee parrocchiali, diocesane e nazionali, ed è una prova ulteriore di come le Chiese possano stimolarsi a vicenda nella santità.
In questi ultimi anni la Chiesa Cattolica ha recuperato i termini “sinodo” e “sinodalità”, in particolare grazie all’indizione di sinodi nazionali, come quello tedesco, che hanno avuto il coraggio di accettare i tempi lunghi del dialogo e di affrontare a tutto campo le sfide del mondo di oggi e i cambiamenti inevitabili richiesti alla comunità cristiane. Anche i vescovi italiani hanno cercato, a modo loro, di avviare nel 2021 un percorso chiamato “cammino sinodale”, che sia pure con grande prudenza e qualche intoppo ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito ecclesiale questa terminologia densa di significato. È un’esperienza ancora in corso, che dovrebbe arrivare a compimento nel 2025.
Come spesso viene ricordato in incontri e articoli, la stessa parola “sinodo” ci costringe a guardare verso Oriente, poiché è un termine greco che significa “camminare sulla stessa strada”. Nella tradizione occidentale di lingua latina viene tradotto con “concilio”, che però ha il significato letterale di “radunare insieme”. Entrambi i termini indicano la volontà di costruire ponti di condivisione e collaborazione, ma mentre l’Occidente immagina una convergenza attorno allo stesso centro, l’Oriente pensa piuttosto ad un incamminarsi nella stessa direzione. Nessuna delle due immagini è migliore dell’altra, ma ciascuna illumina un aspetto della vita comunitaria: per stringere legami fraterni è necessario tanto saper trovare un punto d’intesa condiviso quanto avere una meta comune. Per molti secoli la Chiesa Cattolica Romana ha privilegiato la categoria del Concilio, celebrandone ben 21 in meno di 1600 anni, e ci siamo abituati a concepire i momenti comunitari come delle assemblee che si radunano per discutere e riflettere insieme. La categoria del Sinodo, invece, ci racconta di un altro aspetto del lavoro fraterno, ovvero l’esperienza di incamminarsi insieme. Papa Francesco, cercando di aggiornare questi termini in chiave più moderna, afferma spesso che siamo chiamati ad “avviare processi”; il significato è lo stesso.
La tradizione orientale vede quindi la Chiesa anzitutto come comunità in cammino verso il Regno di Dio, e idealmente descrive ogni esperienza di condivisione come tappa di questo cammino. Di conseguenza l’approccio orientale tende a essere meno preoccupato di arrivare a dei pronunciamenti condivisi che diano risposte chiare e definitive, e si accontenta più facilmente di arrivare a delle indicazioni di lavoro, dei principi utili a guidare la riflessione che poi si confronterà con un caso concreto alla volta. È certamente vero che nelle Chiese orientali è meno frequente che vescovi e Patriarchi diano regole concrete circa la morale e il diritto, preferendo suggerire degli approcci più generali che spetta poi ai padri spirituali applicare alle situazioni dei singoli fedeli. Se questo a prima vista può sembrare un approccio che garantisce maggiore libertà, bisogna ricordare che presso i fedeli orientali la confessione e la direzione spirituale sono generalmente più sentite che in Occidente, ed il confessore ed il padre spirituale tendono a dare ordini precisi su come comportarsi, mentre la tradizione latina raccomanda anche in queste sedi di limitarsi a dare suggerimenti e a formare le coscienze perché ogni fedele arrivi a scegliere da solo come comportarsi. Come sempre non esiste un modo migliore di un altro per mettere in pratica il Vangelo, ma approcci diversi che si integrano a vicenda, in quanto nascono dal comune impegno delle Chiese a tradurre la fede cristiana nella vita quotidiana.
Un altro elemento di forte differenza tra il Concilio occidentale e il Sinodo orientale sta nel fatto che, almeno idealmente, il Concilio è convocato dall’autorità competente, vuoi il Papa o il Presidente dalla Conferenza Episcopale, o il Vescovo della propria diocesi, ed è percepito come un radunarsi a partire dagli stimoli ricevuti. Il Sinodo, in modo diverso, suggerisce l’immagine di un mettersi in cammino seguendo una guida che si è mossa per prima indicando la direzione. In entrambi i casi le Chiese rendono ragione di quel dono misterioso che è la comunione gerarchica e ministeriale, ovvero il fatto che ogni Chiesa è costituita da un insieme di ministeri, carismi e vocazioni che si integrano a vicenda, ed uno di questi ministeri è quello di presiedere la comunità e guidarla. Non può esistere una comunità cristiana nella quale tutti fanno tutto senza distinzioni, poiché le Scritture e la Tradizione concordano nel mostrare che Dio ha creato ogni persona unica e diversa, ed a ciascuno propone vocazioni specifiche ed un cammino di alleanza che non è mai generico ed indifferente. Il cristianesimo, in effetti, non ha mai predicato l’uguaglianza tra le persone, ma il rispetto dei carismi, delle virtù e anche dei limiti che rendono ciascuno originale ed insostituibile. Le Chiese d’Oriente e d’Occidente coltivano questa comune visione con strumenti diversi, poiché anche le Chiese, come le persone, sono ciascuna diversa dall’altra, e proprio per questo sono chiamate ad una comunione che non cerca l’omologazione ma valorizza le specificità. Come nell’assemblea conciliare vi sono diverse competenze ed esperienze, cosicché ciascun partecipante può aggiungere qualcosa al dialogo condiviso, così nel pellegrinaggio sinodale ognuno si muove col proprio passo ed offre il contributo della sua prospettiva unica per fare discernimento sulla strada da prendere. In entrambi i casi è necessario che qualcuno assuma il ruolo di guida, perché la comunità non si disperda e si possa dare valore anche alle voci più deboli.
Chi volesse studiare più da vicino la sinodalità nella storia delle Chiese orientali deve fin dall’inizio mettere in conto anche il confronto con alcune esperienze fallimentari; ciò non deve scandalizzare, poiché tutte le Chiese sono comunità umane, umanissime, e se da un lato sono illuminate dalla Grazia della fede, dall’altro fanno i conti con i limiti e i peccati che albergano nel cuore dell’uomo. Così anche le Chiese d’Oriente hanno i loro scheletri nell’armadio, ma ciò non toglie nulla alla loro santità spirituale. La prassi sinodale orientale insiste particolarmente sulla necessità di coinvolgere tutte le comunità, e quindi tutti i vescovi che le rappresentano, o i Patriarchi e i Metropoliti che parlano a nome delle rispettive Chiese. Questa esigenza, sentita anche in Occidente ma con minore radicalità, da un lato è un esempio positivo che richiama al senso pieno della comunione, dall’altro ha talvolta costituito un ostacolo. La storia del mondo è infatti densa di complicazioni e imprevisti, e anche la fedeltà assoluta ad un principio può diventare una limitazione. Le Chiese ortodosse, ad esempio, dopo i sette concili detti ecumenici non riuscirono più a convocare un Sinodo che le radunasse tutte. Tale sinodo viene detto pan-ortodosso, ovvero che coinvolge tutte le Chiese ortodosse. Una possibilità concreta di realizzare tale incontro sembrò concretizzarsi nel 2016, con il cosiddetto Sinodo di Creta, ma le tensioni fra le varie Chiese (segnate anche dalle rivalità fra gli Stati a cui sono legate) fecero sì che solo 10 delle 14 Chiese ortodosse ufficiali decidessero infine di partecipare. Peraltro, in termini numerici, le 4 Chiese assenti contano oltre la metà di tutti i fedeli ortodossi del mondo, per cui il Sinodo di Creta non riuscì a diventare un’occasione di piena condivisione e di progresso nella fraternità ecclesiale.
In conclusione, il carattere sinodale tanto caro alle tradizioni orientali è oggi tornato a far parte anche dell’esperienza cristiana occidentale, e porta con sé tante suggestioni ricche di stimoli per alimentare il dialogo all’interno di ciascuna Chiesa. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, la buona lezione del Santo Papa Paolo VI, che nell’enciclica Ecclesiam Suam disegna i cerchi del dialogo a partire dal più ampio, quello con tutti gli esseri umani, per giungere infine al cerchio più intimo, quello del dialogo tra i figli di una stessa Chiesa. Ogni qualvolta due o tre si riuniscono nel nome di Cristo, lì deve avvenire un dialogo, tanto nella forma del Concilio che in quella del Sinodo. Non esiste relazione cristiana che non sia relazione di dialogo, persino il rapporto con Dio ha questa forma, poiché Lui ha voluto farsi uomo e trattare con noi da fratello e amico, non da padrone. Ben venga che la nostra Chiesa d’Occidente si lasci ora fecondare dalle sante intuizioni dell’Oriente sulla sinodalità, e speriamo che la lunga esperienza occidentale delle assemblee conciliari sappia stimolare il discorso di comunione interno alle Chiese orientali, cosicché il cammino di ciascuna comunità torni al maggior bene di tutte.