La riflessione di un sacerdote tra disagi e proposte
Riportiamo – dopo aver sentito il parere del Direttore, e averne avuto il consenso, – l’articolo di don Luigi Maistrello, sacerdote della Diocesi di Vicenza, pubblicato in data 17 gennaio sul Settimanale Diocesano “la Voce dei Berici”, sulle problematiche attuali sia dei preti che delle comunità parrocchiali e sulle sfide che possono però nascere da queste difficoltà.
Abbiamo pensato che potrebbe servire come spunto per un dibattito tra di noi magari accompagnato da altre proposte e/o esperienze, proprio a partire dalla nostra realtà Associativa e dal nostro carisma come è specificato dall’art. 2 dello Statuto.
Parlare della crisi dei preti è toccare un argomento vastissimo e dovrebbero essere toccati moltissimi aspetti di vario genere. È certo però, che uno dei motivi di questa situazione di sbandamento nasce anche dalla crisi delle comunità cristiane, delle parrocchie. È un dato di fatto
che queste stiano vivendo una stagione difficile, per non dire molto difficile.
Siamo tutti convinti che togliere alla nostra società, (ai quartieri della città, ai vari paesi delle diocesi) la presenza della comunità cristiana, di chi ha come missione di proporre un modo di vita (nelle parole e nei fatti) che si basi sulla proposta chiamata “Gesù” e raccontata nel suo vangelo, sarebbe arrecare una ferita enorme al futuro di tutti.
Per individuare il ruolo della parrocchia all’interno della società civile, ho sempre utilizzato quello che Santa Teresina diceva di sè stessa: “nel cuore della chiesa, mia madre, io sarò l’amore”. La parrocchia, all’interno di una comunità molto più vasta dei suoi recinti, “dovrà essere il cuore, l’amore”. Qui ci sarebbe molto da aggiungere, ma torniamo al tema principale.
Bisogna dirlo: con la crisi del clero stanno scomparendo anche le comunità! Infatti, scegliere questa modalità di impostare le Unità Pastorali (Collaborazioni Pastorali, ecc.…), costringe il prete ad utilizzare, come azione pastorale, quasi esclusivamente la via sacramentale, con le relative celebrazioni. Ma che senso ha un rito se questo rimane l’unica espressione e intanto le comunità rischiano di scomparire? Il prete ha solo tempo per celebrare e non per seguire tutto il capitolo delle relazioni, relazioni che devono essere d’amore. Senza una comunità vera, anche le celebrazioni si svuotano, alla fine!
Qualcuno tira fuori le carte dei Gruppi ministeriali, nascondendo di fatto che, questo nuovo metodo è un semplice proseguimento di quello precedente, con tutti gli elementi positivi e negativi. Non ci sono novità: solo la macchina si è un po’ ingolfata con un ulteriore appesantimento di riunioni, appuntamenti, incarichi, commissioni, segreterie…
Qualcuno dice che bisognerebbe tornare alla monarchia (il prete che decide da solo); altri sostengono che l’unico metodo è la democrazia (un po’ quello che stiamo vivendo adesso); io dico che le parrocchie vanno gestite come famiglie. In una famiglia ci sono delle persone che prendono decisioni per il bene di tutti e qualche volta si siedono a tavola per trovare la condivisione.
Un motto, una comunità, una testa.
Questo è il cuore della mia riflessione: ogni comunità deve avere una testa, una guida, un pastore! Una comunità che possa contare almeno mille anime. Non un gruppo, ma una sola testa, uomo o donna, non è importante e che può essere anche una coppia, magari una religiosa e un diacono. Una testa che torni a vivere in canonica o che passi buona parte delle sue giornate dentro quelle mura. Una testa proposta dalla gente della comunità, scelta dal presbitero e avvallata dal Vescovo. Una testa che abbia come missione prima non la conservazione dell’overdose di riunioni che stanno ammazzando le nostre agende, ma tenere viva la relazione! La comunità vive di relazioni e dopo, minimamente, di riunioni! Meno riunione e più unione!
Una testa che confermi l’attenzione evangelica per l’altro, per tutti coloro che sentono il bisogno di uscire dall’individualismo e dalla solitudine. Che sappia dialogare con le famiglie, con i ragazzi, con i giovani, con chi sta vivendo un momento di dolore, con chi sta prendendo decisioni importanti, con gli anziani spesso soli, con coloro che si sentono fuori, con chi non ce la fa più.
Una testa che possa trovare anche il riconoscimento della società civile, che è terribilmente assetata di mettersi in rete con chi operi per il bene comune ed è persino disposta a mettere mano ai propri bilanci pur di supportare singole esperienze. Che continui a lavorare con gli altri operatori laici, lontano però dalla brutta abitudine di tanti tra loro di peccare di clericalismo, di sostituirsi al prete. Una testa che non lo faccia per sempre, ma in una fase intensa della sua vita. Che possa essere preparata anche ad animare delle celebrazioni domenicali, da inventare con fantasia e coraggio.
Il ruolo del presbitero
Credo che il prete del futuro sarà costretto a ritagliarsi un nuovo ruolo, proprio per uscire dall’angoscia in cui sta precipitando in questi decenni, costretto com’è a essere trottola che gira intorno a sé stessa senza una precisa meta. Oggi è costretto a correre tra sempre più comunità con un unico fine: tenere vivo l’impianto sacrale che per secoli ha retto la cristianità. Ma se non ci sono le comunità, come sarà possibile sostenere il sacro?
Il presbitero ha bisogno di relazioni e queste devono essere alte. Ha quindi diritto ad un ambiente famigliare, magari costituito da un gruppo di persone con cui creare condivisione, sentirsi a casa e poter fare progetti a lungo termine.
Io credo proprio che il prete del futuro sarà costretto a diventare un piccolo-vescovo, capace di tenere vivo e unito un territorio di trenta/quaranta parrocchie. Lui diventerà l’incaricato della sinodalità, del camminare tutti sulla stessa strada, che dovrà sostenere, supportare, coordinare le “teste” delle comunità. Non sarà indispensabile che viva in una comunità presbiterale, ma dovrà cercare dimora in modo che la sua quotidianità possa essere di relazione e non intonata alla solitudine. La chiesa del futuro avrà pochi preti: pochi, preparati e motivati. Scelti soprattutto perché capaci di relazioni mature e alte. Questa potrà essere una enorme innovazione.
Partire ora per essere operativi tra cinque anni
Un progetto simile ha bisogno di tempi lunghi e, prima di tutto deve essere discusso, condiviso e sperimentato. Se si partisse oggi, potremmo iniziare tra cinque anni e vedere i primi frutti tra dieci anni. Però non possiamo aspettare troppo. Non dobbiamo aspettare il Concilio Vaticano III, ma cercare nelle pieghe dell’attuale Codice di Diritto Canonico e nei documenti della chiesa, gli articoli che possano permetterci di partire subito. Si comincia con poco per arrivare al molto!
Tutto questo è una semplice proposta, un po’ provocatoria, ma la invio proprio perché amo questa chiesa e soffro enormemente nel vedere che sta diventando insignificante nel proscenio degli uomini.
Giampaolo Padovan