Suor Bakhita: una vita meravigliosa
Eliana Marcora: Collaboratrice Familiare del Clero – Coordinatrice regionale per l’Associazione della regione Lombardia
Quanta suggestione ha sempre suscitato in me questa figura di Suora moretta!
Ricordo che restavo rapita ad ascoltare la sua vita quando le suore all’oratorio ci leggevano la sua storia.
È un personaggio grandioso, vissuto in un villaggio del Sudan, dove nacque intorno al 1869 in una famiglia numerosa. All’età di otto anni venne rapita da negrieri che la portarono lontano, subì maltrattamenti e torture così violente, da dimenticare persino il suo nome. Venne venduta poi ad una ricca famiglia: la chiamarono BAKHITA, che significa “fortunata”. Le vicende delle truppe europee in Sudan e l’avanzata dei ribelli in quel paese determinarono le vicende della sua vita e i passaggi di proprietà, da schiava, a diverse persone. A Khartoum fu comprata da un generale turco e fu sottoposta al supplizio di tatuaggi dolorosi, rimanendo per diversi giorni tra la vita e la morte. Fu poi ceduta a un agente consolare italiano e rivenduta infine ai Michieli, che dal Sudan si spostarono a Mirano Veneto, vicino a Venezia dove faceva la bambinaia. Qui Bakhita incontrò Checchini, il fattore di casa che si occupava di organizzazioni cattoliche ed era amico di quel don Giuseppe Sarto che sarebbe diventato Pio X. Le regalò un piccolo crocifisso d’argento, spiegandole che Gesù Cristo, figlio di Dio è Morto per noi. Bakhita lo ricevette con devozione e lo nascose, provando dentro una gioia profonda e una forza misteriosa che non seppe spiegare. Non conosceva Gesù, la Madonna, i Santi. Lì frequentò l’Istituto delle Suore Canossiane di Venezia. Le Figlie della Carità istruirono Bakhita nelle verità della fede in cui, nonostante le difficoltà del linguaggio progredì in fretta tanto da desiderare presto il Battesimo. Venne battezzata il 9 gennaio 1890 con i nomi di Giuseppina, Margherita, Fortunata. Nello stesso giorno fu cresimata e ricevette la prima santa Comunione dal Patriarca di Venezia Card. Sarto. Rimase nell’istituto delle Canossiane due anni nel noviziato, dove maturò la sua vocazione religiosa; fece la prima professione religiosa a Verona. La sua vocazione fu esaminata dal Cardinale Sarto – Patriarca di Venezia – che le disse: “Pronuncia i tuoi voti senza timore: Gesù ti vuole bene”.
Pronunciò la professione religiosa perpetua. Trascorreva le giornate a Venezia nel laboratorio con le ragazze ricamando e lavorando ai ferri. In seguito, fu trasferita a Schio con l’incarico della cucina, poi della sacrestia e della portineria, servizi che esercitò sempre con prontezza, semplicità e affabilità. “Madre Moretta”, come veniva chiamata dalla gente ebbe sempre una buona parola per tutti, esprimendosi nel dialetto veneto, la sola lingua che conosceva. Compì diversi viaggi in Italia, cercando soprattutto di animare alla missione. Negli anni della guerra, mentre gli alleati bombardavano la città, rifiutò di recarsi in un rifugio: tutti erano convinti che, grazie a lei, Schio non avrebbe subito danni E così avvenne. Incominciò però a risentire delle brutalità subite, patite da schiava: fu colpita da gravi forme di artrite, da asma bronchiale e broncopolmonite. Ormai su una carrozzella passava intere giornate in preghiera, davanti al tabernacolo offrendo le sue sofferenze per la Chiesa, per il Papa e per la conversione dei peccatori. Spirò l’8 febbraio 1947. Miracolosamente il suo corpo morto conservò la flessibilità, tanto che le mamme le prendevano il braccio per posarlo sul capo dei figli per invocare la protezione. La sua tomba fu assediata dai fedeli che chiedevano la sua intercessione. Fu beatificata da Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992 e canonizzata Il 1°ottobre 2000.
Il miracolo che decretò la canonizzazione di suor Giuseppina Bakhita fu la guarigione di Eva da Costa Onishi, salvata nel 1992 da ulcerazioni infette agli arti inferiori e si prospettava l’amputazione. La donna, tonando a casa da una riunione di preghiera nella cattedrale di Santos (Brasile), durante la quale avevano invocato la Beata Bakhita si accorse che le piaghe erano improvvisamente scomparse e la pelle rinnovata. Una guarigione rapida, inspiegabile, completa e duratura. Eva da Costa partecipò, in piazza San Pietro, il 1° ottobre 2000 alla cerimonia di canonizzazione della Santa.
La Santa è patrona del Sudan e protettrice delle vittime del traffico di esseri umani.
È stata ricordata anche da Papa Benedetto XVI nell’enciclica Spes Salvi, come esempio di speranza cristiana. Dice il Papa:
“Bakhita, dopo “padroni” così terribili, di cui era stata proprietà, conobbe un “padrone” totalmente diverso, che chiamava “paron” in dialetto, il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e maltrattavano. Ora però veniva a sapere che esiste un “paron”, il Signore di tutti i signori, che l’aveva creata. Anche lei era amata dal “Paron” supremo. Ora lei aveva la “speranza”, non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono attesa da questo Amore. Non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. La speranza che era nata per lei e l’aveva redenta, non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.”
L’amico Giampaolo mi inviò la foto della scultura “Let The Oppressed Go Free” (Lasciate liberi gli oppressi), scattata in occasione dell’inaugurazione avvenuta a Schio il 29 giugno alla presenza del Card. Pietro Parolin. L’opera imponente, realizzata dall’artista canadese Timothy Schmalzin è ispirata ad un passo della Bibbia (is.58,6): “Questo è il digiuno che voglio – oracolo del Signore -: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi”.La scultura rappresenta Santa Bakhita mentre apre una botola, dalla quale emergono le figure che rappresentano varie forme di tratta che esistono nel mondo è dedicata alla lotta contro la tratta di esseri umani. Il Cardinale Parolin ha detto: “Guardando questa scultura tutte le persone possono vedersi raffigurate, perché tutti abbiamo una schiavitù da cui liberarci. Chiediamo a Santa Bakhita, che è la patrona delle vittime della tratta di aiutarci a liberarci dalla schiavitù della chiusura in noi stessi. L’individualismo ci impedisce di prenderci cura degli altri, come dovremmo fare. Solo liberandoci da questa schiavitù saremo veramente in grado di liberare gli altri. “
Santa Bakhita ci mostra che la vera libertà è quella che viene da dentro. La sua fede apre un cammino di luce e di speranza e ci insegna che l’umiltà è la via maestra per seguire Gesù. La sua storia illustra i problemi e le ingiustizie che colonizzazioni, schiavitù e sfruttamento hanno e continuamente creano.
Queste terribili tratte esistono ancora oggi, anche se in forme diverse. In Santa Bakhita troviamo una donna autentica. La sua storia ispira il desiderio di lavorare per tante giovani donne, vittime di tratta, liberarle dall’oppressione e dalla violenza, restituire loro dignità. Può essere un modello sia per le donne che per gli uomini, in quella “resilienza” che è sinonimo di forza, resistenza, flessibilità, adattabilità. Ne ha passate tante ma ha continuato a camminare e ad andare avanti. Bakhita ci insegna ad attingere alla cultura della bellezza, dell’incontro e del dialogo, in cui la varietà di lingue, culture, storie, fedi è ricchezza, non ostacolo. Attraverso scambi di idee, valori, dialogo continuiamo a cambiare, modificando la nostra identità. La Chiesa – quindi noi – corrisponde ai doni ricevuti dal Signore non solo ringraziandolo e vivendo la fraternità al suo interno, ma con l’annuncio e la testimonianza e la cura di coloro che nella storia non sono accolti ma emarginati.
Il Dio della speranza e della libertà rafforzi il nostro desiderio di lavorare per spezzare le catene del traffico di esseri umani e ci aiuti a creare un mondo senza schiavitù “globalizzando la fraternità”.