Celebriamo la vittoria sull’ultimo nemico

di Mons. Mario Delpini

 

  1. Avete qualche cosa da dire, voi discepoli del Signore?

Ma noi abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei depressi che percorrono la terra ripiegati sulle loro tristezze e malinconie? Noi abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei depressi che cammina nelle tenebre e nell’ombra della morte? Noi abbiamo una parola originale o ci adeguiamo anche noi, discepoli del Signore, volonterosi e gentili, eppure lamentosi e scontenti? C’è infatti un popolo triste che abita le nostre terre, di una tristezza che non viene dalle condizioni esterne, ma da una specie di abisso di infelicità che abita dentro i pensieri, le aspettative, le parole di uomini e donne che hanno forse dimenticato che cosa sia una festa. Noi, discepoli del Signore, abbiamo qualche cosa da dire al popolo triste?

 

Ma noi abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei distratti che fanno chiasso e si agitano in ogni parte della terra? Abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei distratti festaioli che eseguono i riti monotoni ed eccitanti della baldoria e della trasgressione? Noi abbiamo una proposta originale o siamo anche noi festaioli e organizzatori di feste, per interrompere lo scorrere noioso del quotidiano, per dimenticare le domande inquietanti, per chiudere gli occhi sui drammi della terra? C’è infatti un popolo di distratti che ama la notte chiassosa e non la mattinata operosa, ama l’ebbrezza e l’euforia per dimenticare, per non guardare avanti, per non guardarsi intorno, per sfuggire al pensiero dell’abisso del nulla che inghiotte ogni cosa: mangiamo e beviamo, perché domani saremo tutti morti. Noi, discepoli del Signore, abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei distratti?

 

Ma noi abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei disperati che piangono e gridano e non hanno pace, perché li tormenta il male e vivono come condannati a morte? Noi abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei disperati che sono lucidi nel vedere la minaccia della morte e gridano la loro protesta, perché non è giusto che finisca la vita, non è giusto che siano spezzati gli affetti, non è giusto che muoiano i giovani, non è giusto che siano smentite le promesse di felicità che sono iscritte nel venire al mondo di ogni figlio d’uomo? Noi abbiamo una parola vera, una risposta persuasiva o siamo anche noi disperati che si fanno prossimi ai disperati della terra senza poter offrire altro conforto che la prossimità solidale e l’inganno di chiamare realismo quella che è rassegnazione? Noi, discepoli del Signore, abbiamo qualche cosa da dire al popolo dei disperati?

 

  1. La vittoria sull’ultimo nemico.

Noi non siamo più intelligenti, più forti, più furbi del popolo che percorre le nostre terre. Ma noi oggi non celebriamo ferragosto come una parentesi per chiudere uffici e negozi, fastidi e preoccupazioni e concederci un giorno allegro.

Noi discepoli del Signore celebriamo la partecipazione alla gloria del risorto della prima delle creature, la nuova Eva, la Vergine Madre Maria e professiamo la nostra fede: l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte! (1Cor, 15,26).

La morte è vinta! Questo noi abbiamo da dire al popolo dei depressi. Perciò siamo in cammino non verso il declino e la triste conclusione di tutto, ma verso la gloria del Risorto e viviamo i nostri giorni non come un “tirare avanti”, ma come una corsa che ci chiama a trasfigurare i giorni, di gloria in gloria. Viviamo infatti la vita come una vocazione, rispondiamo al Signore che chiama e teniamo fisso lo sguardo su Gesù, per lasciarci avvolgere dalla sua luce, imitando Maria che ha sperimentato le grandi opere di Dio e ne canta le lodi. Non siamo autorizzati al lamento e alla tristezza, noi che siamo chiamati a dar lode a Dio per le sue meraviglie, che sfidano il tempo e non sono inghiottite dalla morte, perché anche la morte, ultimo nemico, sarà annientato.

La morte è vinta! Questo abbiamo da dire al popolo dei distratti, festaioli, in cerca di trasgressione e di ebbrezza. Noi siamo convinti che la vocazione alla vita eterna e felice ci rende incaricati di una testimonianza, di una impresa audace che dà valore a ogni giorno. Siamo incaricati di irradiare gioia e speranza. Non abbiamo tempo da perdere nelle banalità, non cerchiamo l’ebbrezza provvisoria che fa dimenticare la fatica e le frustrazioni. Ci appassioniamo alle cose buone, alla gioie condivise, al lavoro ben fatto per aggiustare il mondo, perché la morte è vinta e sappiamo di dover rendere conto di come abbiamo usato il tempo e i talenti e le occasioni. Siamo a servizio dell’opera di Dio che vuole deporre i potenti dai troni e innalzare gli umili, ricolmare di beni gli affamati e rimandare a mani vuote i ricchi. Amiamo il bene che possiamo fare e ci dà fastidio la distrazione, perché sappiamo che niente finisce, e invece ogni cosa è scritta sul libro della vita: la morte infatti, l’ultimo nemico sarà annientato.

La morte è vinta! Questo abbiamo da dire al popolo dei disperati, che sono tormentati nel corpo e nell’anima e si ribellano perché la vita non ha mantenuto le sue promesse e gridano contro il destino, contro tutto, contro Dio. Non abbiamo la ricetta per una felicità sulla terra, ma abbiamo la certezza dei nuovi cieli e della nuova terra in cui Dio stesso tergerà ogni lacrima dagli occhi dei suoi figli. Infatti anche la morte, ultimo nemico, sarà annientato: attraverso la via dolorosa percorsa da Gesù si aprirà la strada alla vita gloriosa in cui oggi contempliamo la gioia di Maria e celebriamo il fondamento della nostra speranza: per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.

 

Sì, noi discepoli del Signore, abbiamo qualche cosa da dire, perché noi stessi siamo stati guariti dalla depressione, dalla distrazione, dalla disperazione.

Sì, umilmente, discretamente, pazientemente, noi abbiamo qualche cosa da dire a proposito della speranza del mondo.

 

La riserva inesauribile del desiderio che si affida alla promessa

 

  1. Tu vuoi troppo poco.

Hanno preso le lampade per andare incontro allo sposo. Si sono preparate per la festa portando il loro desiderio, la loro buona volontà, la lampada accesa. La lampada accesa è l’immagine della attesa, della speranza dell’incontro che rende felici. La lampada accesa contiene un po’ d’olio per alimentare la fiamma. Troppo poco se l’attesa si prolunga e lo sposo tarda a venire. La stoltezza rimproverata nel vangelo è di avere una attesa troppo piccola, una speranza troppo modesta, una riserva troppo ridotta di desiderio.

Quindi coloro che sono esclusi dalla festa non sono coloro che pretendono troppo, che desiderano troppo, ma coloro che desiderano troppo poco.

Ecco una malattia o una stoltezza troppo diffusa: tu desideri troppo poco, come potrai predisporti alla festa di Dio?

La malattia dei desideri piccoli è diffusa nel nostro tempo e talora sembra presentarsi come una forma di saggezza: sembra che lo spirito del mondo dica: “Non desiderare troppo per non essere deluso, accontentati! Non sognare cose grandi! Lasciati convincere a cercare quello che il mercato offre, lasciati stimolare dai prodotti disponibili, vivete alla giornata, non preoccupatevi di avere olio per tenere accesa la lampada per lunghe attese!”

Il desiderio troppo piccolo è quello che si concentra sulle cose materiali, sulle piccole meschini rivincite, sulle gratificazioni precarie (un successo professionale, un buon esito scolastico,… tutto qui?)

Ma nel mondo dei desideri piccoli non s’è nessuna porta che conceda di accedere alla festa di Dio.

  1. Maria, beata perché ha creduto.

Maria ha costruito il suo desiderio e le sue speranza non su piccoli desideri, ma sull’annunciazione sorprendente dell’angelo Gabriele. Maria ha ricevuto la promessa più inaudita della storia e ha creduto. Ha conformato i suoi desideri non ai suoi progetti, ma alla promessa che le era stata fatta.

Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45).

  1. Desiderate di più!

La testimonianza di Maria diventa un invito ad accogliere l’annunciazione delle promesse di Dio a contemplare il cielo nuovo e la terra nuova, e la città santa la Gerusalemme nuovo.

L’angelo dell’annunciazione che rivela la promessa di Dio per l’umanità dice quindi a noi tutti: desiderate di più!

Non accontentatevi di desiderare una vita sistemata, rassicurata da quello che avete, dal lavoro che fate, accettando di essere dentro un meccanismo che mentre vi regala qualche briciola di benessere vi succhia l’anima, il tempo, il pensiero. Non accontentatevi di desiderare una sistemazione. Cercate piuttosto di vivere la vostra vita come una vocazione, una storia costruita insieme con lo Spirito di Dio: non certo per immaginare una vita astratta, per inseguire un sogno avventuroso. Piuttosto rendetevi disponibile per percorrere le strade del Vangelo, per vivere la vita come una risposta al Signore che chiama, per coltivare la convinzione che così come sei fatto, sei adatto alla santità, quale che sia il mestiere o la famiglia o l’incarico comunitario che ti trovi a vivere.

Non accontentatevi di desiderare un po’ di sollievo, un po’ di distrazione dalle tribolazioni della vita, non accontentatevi di cercare qualche parentesi di divertimento, qualche piacere segreto per sfogare le passioni e cancellare la tristezza e fare finta di essere allegri. Potete desiderare di più: siete fatti per essere felici di una felicità che sfida anche la morte, che può vincere ogni tentazione di vivere senza speranza e senza gioia.

Non accontentatevi di desiderare una città tranquilla, rassicurata dalla cinta di mura che la circondano per tenere lontani i pericoli dei nemici, degli stranieri, degli imprevisti. La città non è sicura perché rafforza le sue difese e si arma per resistere con accanimento.

Potete desiderare di più: potete desiderare la pace, la convivenza che diventa serena per la qualità dei rapporti, la città che diventa una fraternità, che costruisce rapporti di buon vicinato perché il tuo bisogno diventi anche un mio problema e il mio bisogno non ti lascia indifferente.

 

Non abbiamo che questo

 

  1. I cristiani, gente per bene.

I cristiani sono gente per bene. Parcheggiano con criterio, se sbagliano una manovra chiedono scusa. Sono gente per bene: parlano senza troppe parolacce, discutono senza gridare troppo, parlano di calcio e di politica, un po’ come fanno tutti, lamentano dei mali presenti, un po’ come fanno tutti. Sono gente per bene: se c’è da dare una mano, non si fanno pregare; se capita una disgrazia sono tra i primi a commuoversi e a soccorrere, per la festa del paese ci prendono gusto a organizzare il pranzo comunitario e la pesca di beneficenza. Sono gente per bene: suonano le campane per la messa della domenica e regalano un tocco di festa a tutto il paese, tengono vivo l’oratorio dove tutti sono benvenuti e si insegna a tutti un po’ di civiltà.

Insomma sono gente per bene.

  1. I cristiani e il loro cruccio.

Tuttavia i cristiani sentono dentro una inquietudine e c’è un cruccio che non li lascia tranquilli. Guardano i loro bambini e sospirano: “Come sono belli e cari! Ma che sarà di loro? Non siamo in grado di assicurare loro la gioia!”. Applaudono gli sposi novelli, ma hanno come un retropensiero: “ Come sono  contenti! Ma durerà? Non siamo in grado di assicurare la fedeltà!”. Attraversano con un senso di colpa i giardinetti in cui bivaccano adolescenti inconcludenti: “Quanto tempo sciupato! Quanti talenti sotterrati! Non siamo in grado di aiutarli a rispondere alla loro vocazione!”. Vanno a trovare i malati e discutono di acciacchi e medicine, si congedano con parole rassicuranti e auguri di stare meglio, ma rimane in loro un senso di incompiuto che li rimprovera: “Non so se guarirà. Ma non siamo in grado di offrire la consolazione della speranza invincibile!”

Ecco come sono i cristiani: sono inadeguati e sanno di non essere all’altezza della loro missione. Sono là per essere sale e non riescono a dare sapore! Sono là per essere luce e anche loro talora sono avvolti da un grigiore confuso. Hanno raccolto le confidenze di Gesù: ma invece di esserne tutti illuminati sono incerti e smarriti, tanto che Gesù li rimprovera: la tristezza ha riempito il vostro cuore. È proprio vero quello che dice Gesù: non siete capaci di portarne il peso.

Gesù si è fidato di loro, ha affidato il compito di continuare la sua missione; ma loro devono riconoscere di non essere all’altezza. “Siamo pochi e gli altri sono molti; siamo stanchi e il lavoro è appena cominciato; non siamo abbastanza preparati e le contestazioni ci mandano in confusione; abbiamo fatto tanto e tutto quello che abbiamo fatto oggi sembra niente: non c’è chi lo apprezzi e c’è chi lo considera addirittura un peso di cui disfarsi.

Ecco come sono i cristiani: gente per bene, che soffre di non essere all’altezza delle sfide di questo tempo complicato.

 

  1. Lo Spirito vi guiderà a tutta la verità.

 

Mentre si crucciano per non essere all’altezza, ricevono però quello che il Padre ha promesso, lo Spirito della verità che guida i cristiani a tutta la verità. E nella verità si manifesta la consolazione di Dio: la missione è affidata a voi, ma non è vostra; la sapienza illumina le vostre menti, ma non viene dallo spirito del mondo, da una sapienza umana, ma dallo Spirito di Dio; voi non dovete portare voi stessi, ma ciò che vi è stato dato.

Voi non siete in grado di assicurare la gioia ai bambini che amate, perché la gioia è il segreto di Dio. Ma Dio non è geloso della sua gioia e l’offre a tutti coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio: perciò siate lieti!

Voi non siete in grado di garantire la fedeltà nell’amore, perché le risorse umane non possono comprare l’amore né può bastare la buona volontà e i buoni propositi, perché solo Dio è fedele. Ma Dio non è lontano da voi e vi rende partecipi della sua fedeltà. L’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui.

Voi non riuscite a consegnare ai giovani il senso della vita e la fierezza di una vocazione, perché la sapienza del mondo insegna piuttosto ad essere cinici e disperati invece che ardenti di passione per una missione, ma il Signore Gesù continua a percorrere le strade della terra e usa la vostra voce e la vostra testimonianza per dire ancora: “vieni, seguimi!”.

Voi di fronte al soffrire e al morire non siete all’altezza di un discorso che offre la consolazione della speranza, ma la speranza non viene da voi, ma dalla Pasqua di Gesù.

I cristiani che accolgono lo Spirito di Dio e la sua rivelazione continuano a percorrere la terra, a visitare le case degli uomini, a frequentare gli uffici e i supermercati, e a tutti coloro che incontrano sono incaricati di dire: “Io non ho niente di mio che possa bastare al tuo bisogno di vita, di speranza e di gioia, ma ti porto Gesù, la sua Pasqua, la sua vita”.

 

Le domande, percorsi verso la verità della Pasqua di Gesù

 

  1. I preti pongono domande.

Pongono domande. I preti, come i discepoli, pongono domande: dove vuoi che prepariamo per la Pasqua?(Lc 22,9). Hanno una missione da compiere: Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua, ma la missione è piena di incertezze, di imprevisti, di inquietudini.

I preti, in sostanza, devono preparare la Pasqua di Gesù, ma non hanno ricevuto una ricetta di prescrizioni da mettere in atto, hanno ricevuto una missione, come un rischio da correre piuttosto che come un protocollo da rispettare, come una speranza da irradiare, una gioia con cui contagiare il mondo, piuttosto che come un programma da attuare.

Perciò i preti pongono domande.

I Preti pongono domande al Signore: dove andare? Che cosa dobbiamo fare? I preti pongono domande al Signore, perché non sono protagonisti, ma servi; non sono esperti abilitati a una professione, ma discepoli che non possono fare nulla senza il Maestro. Pongono domande al Signore, e quindi continuano a leggere e a rileggere le Scritture, continuano a farsi aiutare dai maestri che conoscono e che stimano. Non sono studiosi impegnati in un percorso accademico, ma discepoli che domandano dove si possa celebrare la Pasqua. Pongono domande.

I preti pongono domande alla gente che incontrano: chi offrirà la sala al piano superiore, grande e arredata per celebrare la Pasqua? E infatti per celebrare la Pasqua, il principio di speranza per tutta l’umanità e per tutta la storia, si deve trovare una stanza al piano superiore, si deve trovare un cuore disponibile, si cercano persone che aprano la porta, che accolgano in casa, che offrano al Signore quel frammento di storia che salva la storia, quell’accoglienza amica che può trasformare l’intera umanità in una fraternità universale. I preti pongono domande, cercano il frammento ospitale, propongono legami personali come una amicizia, incontri fraterni, come una casa. I preti pongono domande: vuoi aprire la porta di casa tua perché il Maestro possa celebrare la Pasqua?

I preti pongono domande e cioè bussano alle porte della vita altrui. Non vivono infatti per se stessi. La domanda può essere inquietante, come una invadenza, la domanda può essere fastidiosa come un disturbo, per gente che si è abituata a vivere senza una speranza di salvezza e tengono vuota la loro sala al piano superiore, piuttosto che aprirla al Signore che cerca un luogo per celebrare la Pasqua. Molta gente forse cerca di evitare i preti e le loro domande. Ma i preti che possono fare? Devono continuare la missione che hanno ricevuto, quindi continuano a porre domande.

 

  1. Il prete che diventa una domanda.

Ci sono però delle storie che conducono a situazioni drammatiche. Ci sono infatti dei preti che dopo aver posto domande per molti anni del loro ministero, diventano loro stessi una domanda.

Può succedere che il prete, che ha percorso molte strade, sperimenti di non poter più muovere neppure un passo; il prete che, ha scritto molte pagine, non riesce più a scrivere una riga, il prete, che ha parlato in molte occasioni, non riesce più a dire una parola.

Allora il prete non pone più domande, ma diventa lui stesso una domanda: che senso ha questa condizione che impedisce al missionario di svolgere la sua missione? Perché mai è impedito al servo incaricato di preparare la Pasqua di svolgere il suo servizio? Perché si prolunga per tanto tempo una condizione di impotenza? Come si può spiegare questo vivere di un prete che non può più fare il prete?

Il pensiero scettico, lo sguardo incredulo, l’atteggiamento sbrigativo, che sembrano così diffusi e facili da condividere, sono inclini a decretare l’inutilità di tutto, a mettere in discussione che ci sia una risposta di fronte al prete diventato domanda, a trarre la conclusione che il Salvatore non riesce a salvare.

Ma il discepolo attento, la comunità credente, noi, poveri uomini e donne che ci sentiamo talora smarriti di fronte alle domande ultime, noi avvertiamo la consolazione di una rivelazione. E di fronte al prete incaricato di preparare la Pasqua che dopo avere fatto domande è diventato lui stesso domanda, sentiamo quale sia la risposa suggerita dallo Spirito. Ecco: dopo aver cercato di preparare la Pasqua è diventato lui il luogo della Pasqua, la sala al piano superiore in cui si celebra il mistero che salva.

 

Ecco che cosa celebriamo quando siamo radunati intorno a un prete malato dall’affetto, dalla gratitudine e dall’inquietudine delle domande. Celebriamo la Pasqua di Gesù e la vita di un prete che stimiamo e amiamo, un prete che ha coltivato le domande, ha studiato le scritture, ha insegnato a raccogliere dalla sapienza rivelata le risposte per fare spazio nella vita alla Pasqua di Gesù e infine è diventato lui la sala al piano superiore arredata per accogliere la celebrazione della Pasqua e là si è consumato il sacrificio, l’offerta senza risparmio, il pane offerto per diventare il corpo del Signore.