Beati … Felici … Santi …


Mons. Ennio Apeciti – Rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma e Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi


«Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr. Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini».

«I santi fanno passare la luce!»

Queste parole dell’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate (n. 63) sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, mi hanno richiamato alla memoria un simpatico messaggio, che ho ricevuto nel giorno di Tutti i Santi: «Una maestra di una scuola materna aveva portato la sua classe a visitare una chiesa con figure dei santi sulle vetrate luminose. Ritornati dalla visita, domandò ai bambini: “Sapete chi sono i santi?”. Un bambino rispose: “Sì, sono quelli che fanno passare la luce!”. Stupenda definizione! I santi fanno passare la luce di Dio, che continua a illuminare la terra…!».

Parole che possono aiutarci a ricordare che possiamo essere luce l’uno per l’altro con la nostra cordialità quotidiana, il nostro sorriso, la nostra disponibilità capace di lacerare le nubi grigie che talvolta spengono il cielo.

Parole di un bimbo, semplici per alcuni, ma di enorme potenza almeno per me. Questo bimbo d’asilo ha raggiunto il centro della santità, quello auspicato da Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate.

La gioia dei piccoli

Parole fresche, quelle di questo fanciullo, parole che fanno sorridere e così mi richiamano le altre parole di papa Francesco: «La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”».

Dunque, quel fanciullo così pieno di gioia era ed è un autentico santo. Ce lo disse Gesù con chiarezza: «A chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli» (Mt 19, 14), dice Gesù e che siano autentiche sue parole ce lo confermano gli altri vangeli, che le riportano allo stesso modo, segno della loro autenticità: «A chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio», scrive Luca (Lc 18, 16).

Anzi, Gesù va oltre,  e richiama tutti ad “imparare” dai bambini, se vogliamo entrare nel Regno: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli», dice Gesù nel Vangelo di Matteo (Mt 18, 3) e gli fa eco Luca: «Chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Lc 18, 17).

Per quale motivo Gesù porti l’esempio dei bambini, è lui stesso a dircelo, quando, entrando a Gerusalemme acclamato con entusiasmo dai «fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide!” e sentendo i capi dei sacerdoti e gli scribi che mormoravano sdegnati, disse: «Non avete mai letto: Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode?» (Mt 21, 15-16).

Non erano parole nuove, ma un insegnamento antico, perché Gesù riprendeva le parole del Salmo 8, con quel grido entusiasta: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra! Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza» (Sl 8, 2). Ma chi potrà farlo? Chi potrà innalzare questo canto di lode? Continua il Salmo: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari» (Sl 8, 3).

Se questo entusiasmo appartiene ai “bambini”, è prima di tutto, perché ogni bimbo è segno dell’infinita tenerezza d’amore di Dio, come canta il profeta Geremia: « Non è forse Efraim un figlio caro per me, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza» (Ger 31, 20).

Tanto preziosa è l’immagine del bambino: esprime l’amore di Dio per ogni Suo figlio, per ognuno di noi e l’entusiasmo che ogni figlio di Dio, ognuno di noi dovrebbe, anzi deve avere per Dio che ci è Padre.

Sapersi amati per educarci ad amare

Per questo motivo scrivevo che Gesù ci chiede di imparare dai bambini, se vogliamo entrare nel Regno, se vogliamo diventare santi, perché “entrare nel Regno di Dio” e “diventare santi” è la stessa cosa: sono “sinonimi”!

Un bambino ha sempre e in tutto bisogno della sua mamma, di chi lo ama e un bimbo cui sia negato l’amore di un papà e di una mamma cresce soffrendo, come tutti ben sappiamo!

Il bimbo ci ricorda che ogni essere umano, ognuno di noi, ha “bisogno” di Dio, per essere felice, per crescere felice, per vivere felice.

Quando questo avviene, quando un bimbo si sente amato – anche questo è ben noto! – è felice e sprizza sorriso e gioia e allieta chi gli sta vicino!

Il bimbo si sa amato e per questo è felice. Il bimbo si fida (di mamma e papà), e per questo è felice. Il bimbo impara dal papà e dalla mamma, e per questo è felice. Da loro impara quel “mamma”, “papà” che udito la prima volta, li commuove e ogni volta che lo ripete, riempie tutti di gioia! Ha imparato dal babbo e dalla mamma, si è fidato di loro e li ha resi felici e sorride di gioia!

Credo che a questo punto possiamo capire, perché papa Francesco dica che “felice” o “beato” è “sinonimo di “santo”.

“Felice … Beato … Santo”

In effetti, una delle più evidenti caratteristiche dei santi è la gioia. Gioia invincibile, gioia anche in mezzo alle prove più dure, alle umiliazioni più grandi, alle sofferenze più acute, alle persecuzioni più feroci, agli ambienti più problematici o perfino ostili.

Il pensiero corre a Francesco d’Assisi, ma non solo a lui: è una schiera senza fine di santi della gioia.

Sin dai primi cristiani. È affascinante leggere il Decimo precetto del Pastore di Erma (II sec.): «Caccia da te la tristezza perché è sorella del dubbio e dell’ira. […] Armati di gioia, che è sempre grata ed accetta a Dio, e deliziati in essa. L’uomo allegro fa il bene, pensa il bene ed evita più che può la tristezza. L’uomo triste, invece, opera sempre il male, prima di tutto perché contrista lo Spirito Santo, fonte all’uomo non di mestizia ma di gioia. […] Vivranno in Dio quanti allontanano la tristezza e si rivestono di ogni gioia».

Si rimane sempre estasiati dinanzi ai lampi di Agostino nelle sue Confessioni: «Tu sei il Dio del mio cuore»; «Tu, vera, suprema dolcezza»; «Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entra nella gioia del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene»; « Non è certo che tutti vogliano essere felici; poiché chi non vuole avere gioia di Te, che sei la sola felicità, non vuole la felicità».

Penso a san Francesco di Sales, che in una sua lettera alla discepola – e  santa – Giovanna Francesca Chantal scrive il 17 giugno 1606: «Tenete il vostro cuore ben aperto dinanzi a Dio, e camminiamo sempre nella gioia alla sua presenza. Egli ci ama e ci ama molto, e il buon Gesù è tutto nostro. Siamo solamente suoi, amiamolo, amiamolo molto».

Il Papa della gioia

Ma penso, soprattutto, a san Paolo VI, il “Papa della gioia”, che ci ha donato la prima è insuperata Esortazione Apostolica sulla gioia, la Gaudete in Domino (9 maggio 1975) con il suo stupendo incipit: «Rallegratevi nel Signore, perché egli è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero». È una fusione della Lettera di san Paolo ai Filippesi (4, 4-5) e del Salmo 145, 18. Paolo ai Filippesi dice: «Rallegratevi nel Signore, sempre. Ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino». Il Salmo a sua volta ripete: «Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero». 

Penso al beato Papa Pio IX, accusato di ogni oscurantismo e di ogni repressione, il quale scrisse al giovane nipote: «Orian, figlio mio, fa quanto io non ho potuto fare … Tu che conosci il linguaggio della gente e ogni sotterfugio della sua natura, parla, fa comprendere agli uomini che nel mondo hanno un solo dovere: annunciare la gioia. La gioia che noi conosciamo, la gioia che siamo stati incaricati di dare a tutti; fa’ loro capire che essa non è una parola vaga, un insipido luogo comune di sacrestia, ma una tremenda, una superba, una splendida, una struggente realtà al cui confronto tutto il resto è nulla».

Pio IX e Paolo VI vissero in epoche particolarmente travagliate, che conoscevano bene, senza illusioni, come scrisse Paolo VI, ma concludeva: «Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia».

Per questo, nel giorno di Pasqua 1964 Paolo VI esclamava: «Il cristianesimo è gioia. La fede  è gioia. La grazia è gioia. Cristo è la gioia, la vera gioia del mondo. La vita cristiana, sì, è austera; essa conosce il dolore e la rinuncia e, quando occorre, affronta la sofferenza e la morte. Ma nella sua espressione risolutiva la vita cristiana è beatitudine».

Gioia e beatitudine, dunque, coincidono. E i santi ne sono testimoni. Per questo Papa Francesco dedica il terzo capitolo della Gaudete et exsultate alle Beatitudini, la «carta di identità del cristiano»: «Beati voi … Felici voi…» dice Gesù e ci indica il cammino, il cammino della gioia, della beatitudine, della santità, dell’autentica vita cristiana. Non a caso, Chesterton diceva che «la gioia è il gigantesco segreto del cristiano».

Allora, come chiede papa Francesco: «Torniamo ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro. Permettiamogli ci colpirci con le sue parole, di provocarci a un reale cambiamento di vita» (n. 65).