Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio


Mons. Ennio Apeciti – Rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma e Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi


«Questa beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia, perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo».

Così Papa Francesco presenta la sesta delle Beatitudini, proposte da Gesù sulla Montagna (Mt 5,3-12) e che il Papa indica come la via maestra per quella santità. cui tutti siamo chiamati ed alla quale ci esorta con Gaudete et exsultate (n. 83).

Anche riguardo a questa Beatitudine mi sembra ci sia una “precomprensione”: l’abbiamo ridotta in molti casi alla “purezza”, alla “castità”. Nel senso comune – mi sembra – viene subito riferita al sesto comandamento, “Non commettere atti impuri” come si diceva una volta, anche se in realtà il Decalogo consegnato a Mosè parla di “adulterio”: «Non commetterai adulterio» (Es 20,4); Dt 5,18).

Con questo comandamento Dio non intende solo gli atti o i pensieri, ma il cuore e le relazioni. 

Non commettere adulterio significa rimanere fedele alla persona, alla quale ci si è legati in un vincolo d’amore che richiama l’intenzione originaria di Dio. Per questo Egli aveva preso una costola di Adamo per plasmare Eva: la prese da vicino al cuore, per ricordare all’uomo che è debole e fragile senza quella donna, quella “costola” che protegge il suo cuore; ma insieme anche la donna solo tornando nel petto di Adamo, presso il suo cuore, trova la sua realizzazione e la sua felicità, perché trova il suo posto e dona felicità e vita.

Dio, creando Adamo ed Eva, disse loro che avrebbero dovuto essere tra loro come una persona sola, perché solo così sarebbero stati felici e il segno di questo loro “essere uno” è il figlio che insieme generano: una “nuova” creatura, che custodisce nel suo DNA – ormai gli scienziati ce lo spiegano bene – i cromosomi di ambedue coloro che lo hanno generato alla vita.

Così il “sesto comandamento” non riguarda solo la “vita sessuale”, ma l’intera vita, le relazioni autentiche. Comprende la fedeltà. Comprende il dono di se stessi e, dunque, il rifiuto di ogni egoismo personale. Comprende la capacità di condividere insieme gioie e dolori, fatiche e speranze. Comprende la fiducia, perché ambedue sanno di potersi fidare dell’altro o dell’altra. Per farlo, occorre essere affidabili e, per esserlo, occorre essere leali e sinceri e veri e limpidi, senza ipocrisia: «Posso fidarmi di lui, perché so che è leale. Può fidarsi di me e glielo garantisco, perché tra quello che penso e quello che dico e quello che faccio c’è sintonia. Non sono un ipocrita che finge; non sono un egoista che si impegna solo fino a quando e se mi conviene».

Il sesto comandamento comprende il sapersi aiutare, anzi anche il sapersi “sopportare”, l’avere pazienza, perché oggi sono “di luna” io e domani lo sarai tu; oggi sei nervoso tu, ma domani probabilmente sarò nervoso io. Lo sappiamo e per questo non diventiamo puntigliosi; non ci vendichiamo, anzi ci perdoniamo a vicenda, fosse anche settanta volte sette al giorno!

Il sesto comandamento significa saper perdonare e avere fiducia di essere perdonati; saper pazientare e sapere che chi ci ama è paziente con noi; saper capire e sapere di essere capiti. Questo comporta saper dialogare e sapersi spiegare, farsi capire e cercare di capire.

Potrei continuare, ma spero che sia sufficiente per capire la bellezza del sesto Comandamento e della Beatitudine, che Gesù ci ha indicato come via di santità. Essi – comandamento e beatitudine – non riguardano solo il corpo o solo il sesso o solo il matrimonio. Riguardano l’essere umano, uomo o donna che sia. Riguardano il modo di vivere le relazioni con tutti, a partire da quella persona che ci è più vicina che mai, perché formiamo una sola cosa, una sola realtà con lui o con lei. 

Questo comandamento-beatitudine vale per tutti, per ogni uomo e ogni donna; per chi è sposato e per chi non lo è; per chi vive il sacramento dell’amore di Dio e chi vive per i sacramenti dell’amore di Dio. Sì, vale anche per preti e suore, perché anche loro, anche io che scrivo sono legato con un “patto d’amore” a Dio che mi ha scelto per essere Suo, per vivere unito a Lui totalmente, per essere tutto Suo, come lo sposo è tutto della sua sposa e la sposa è tutta del suo sposo. È anche per questo che le Chiese orientali approvano il matrimonio dei loro ministri: non c’è opposizione tra l’amore per la propria sposa e l’amore per Dio che ha chiamato quel prete a testimoniare il Suo amore. L’importante è amare Lui e come Lui amare chi Lui ama.

A questo punto capisco perché Papa Francesco introduca il “cuore” e scrive: «Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: “L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7)» (n. 83).

Anche questo lo sappiamo bene: troppe volte e troppe persone hanno un cuore diverso dalle parole che dicono e dalle azioni che fanno. Si può essere gentili e sorridenti con qualcuno, coltivando contemporaneamente disprezzo o invidia o gelosia. Una volta feci i complimenti alla mia mamma, perché era venuta a trovarla una persona che mi era sembrata gentile, educata; le aveva fatto molti complimenti per come lavorava perché mia mamma era una sarta bravissima. La mia mamma si fece triste in volto e mi confidò: «Quella persona dice la verità solo quando è a corto di bugie». In effetti, quella signora ossequiosa non tornò più, e non pagò il vestito, che le aveva fatto mia madre.

Vengono in mente le parole di Gesù: «Ciò che proviene dal cuore, questo rende impuro l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (cfr. Mt 15,18).

Questo rende “impuro”. Questa è la vera “impurità”. Dunque, la “purezza” è proprio evitare tutto questo! Non a caso Dio fa dire al profeta Zaccaria: «Ecco ciò che voi dovrete fare: dite la verità ciascuno con il suo prossimo; veraci e portatori di pace siano i giudizi che pronuncerete nei vostri tribunali. Nessuno trami nel cuore il male contro il proprio fratello; non amate il giuramento falso, poiché io detesto tutto questo» (Zac 8,16-17).

Non a caso Paolo ammonisce i cristiani della Galazia: «Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. […] Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 19-22). Questa, dunque, la vera “purezza”. San Paolo lo ribadisce splendidamente ai cristiani di Corinto: si può essere dotati di mille capacità; si può essere molto intelligenti; si può essere dotto dottore o chiarissimo docente o abile insegnante; si possono parlare molte lingue; si può essere un espertissimo medico o chirurgo e sentire dire che “fa miracoli, tanto è bravo!”; si può essere acutissimo psicologo, capace di sciogliere i più reconditi misteri della psiche; si può essere abilissimi negli affari; si può essere affabulatore politico o incantante conferenziere, profumatamente pagato; si può essere economisti di grido e funamboli del mondo finanziario …ma se manca la carità non serve a nulla. 

Vive la carità chi è magnanimo, chi è benevolo, chi non è invidioso né si vanta, chi non si gonfia d’orgoglio e non manca di rispetto, chi non pensa solo ai propri interessi e non esplode rabbioso; chi non è rancoroso; chi non sopporta l’ingiustizia ma si rallegra della verità; chi è sempre pronto a capire le intenzioni dell’altro e si fida sempre; chi spera sempre e sempre sopporta.

È la carità, di cui parla Paolo (1Cor 13,4-8); è la carità del cuore: la parola karis ha lo stesso radicale di kardia, appunto “cuore” e lo conferma il latino, ove caritas ha lo stesso radicale di cor, cuore.

Per questo motivo, Dio «guarda il cuore» e non l’apparenza. Dio vede nel segreto. Dio vede la verità di ognuno di noi; Dio vede il “cuore” di ognuno di noi e ci giudicherà non per i sorrisi che abbiamo fatto o le gentilezze che abbiamo avuto – come la signora ricca che derubò la mia povera mamma – ma per il cuore che abbiamo messo in ciò che abbiamo detto e fatto.

Non a caso, Gesù non lodò i ricchi che gettavano molte monete nelle cassette del Tempio, ma la povera vedova che gettò due sole monetine. Valevano tutto, perché erano «tutto ciò che aveva» (Mc 12,42), mentre i ricconi non avevano dato nulla di speciale: era solo il “superfluo”, anzi «una parte del loro superfluo» (Mc 12,44), quello che gli avanzava dopo aver fatto tutti i loro comodi.

A Dio non interessano le molte cose che facciamo o che diciamo, ma il molto cuore – anzi tutto il cuore – che mettiamo nel fare e parlare. I padri antichi dicevano “non multa sed multum”!

Dio, infatti, non si ferma alle cose, ma cerca sempre il cuore: «Parlerò al suo cuore» dice Osea (2,16). 

Il sogno di Dio è di abitare nel cuore dell’uomo, perché lì ha posto la Sua alleanza, come confida a Geremia: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,33).

Egli, Dio, ne è sicuro. Egli ci riuscirà, come profetizzò a Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36, 26-27).

Egli ci riuscirà, anzi ci è già riuscito: lo ha fatto Gesù, quando dal suo cuore squarciato sono sgorgati sangue e acqua, simbolo dei suoi sacramenti.

Da allora, dalla Pasqua, il cuore di Dio si è aperto per noi, perché potessimo esservi accolti. Siamo chiamati ad avere il cuore di Dio. 

La purezza di cui parla Gesù nelle Beatitudini è questa: avere lo stesso cuore di Dio, guardare con gli stessi occhi d’amore di Dio, guardare con gli occhi del cuore.

Ce lo ricorda il buon Samaritano che fece tutto con occhio e cuore puro, senza alcun interesse personale, se non quello di aiutare il povero viandante, trovato mezzo morto lungo la strada.

Ce ne indicò l’esempio papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est: «Il programma del cristiano, del buon samaritano, di Gesù è un cuore che vede. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Egli sa che l’amore nella sua purezza, nella sua fragilità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare» (n. 31b).

È possibile? Pensiamo alla Beata suor Enrichetta Alfieri, che visse per trent’anni nel Carcere di San Vittore di Milano, tra quelli che spesso consideriamo gli “ultimi”, che “non meritano”. Ne convertì molti, anche tra i più crudeli assassini, perché – come dissero proprio loro – con il suo sorriso gentile, si capiva che li guardava «con gli occhi del cuore».