La Pelle di Dio


Testo di Don Marco Campedelli – Verona


Il tabernacolo in copertina, opera dello scultore Marco Danielon, è stato un lavoro di sottrazione, di scavo, alla ricerca dell’anima della pietra e del nocciolo della fede. È una forma cosmica, ma soprattutto una forma che racconta la terra promessa, sospirata, sognata, custodita nelle lacrime dell’esilio.

È la terra sulla quale Gesù piange e danza. È la terra sulla quale è rintracciabile la traccia di Dio. È la terra dello straniero che qui trova il canto per il suo riposo. In questo corpo squadrato la pietra colpita dallo scalpello e il taglio che ne attraversa la superficie rivelano la fragilità di quel corpo, la sua ferita.

Le parti ruvide di quel corpo raccontano la “pelle di Dio”. La pelle di un Dio che ha sete di amore e cammina lungo il deserto del mondo per condurre verso l’acqua viva. È la pelle delicata di un padre o di una madre che non nascondono le rughe da cui sono fiorite le generazioni. In mezzo a quel corpo di Dio, come l’arcobaleno dopo il diluvio, è impressa la ferita dell’incarnazione. È la ferita del costato di Cristo, provocata dalla lama di una lancia. È la parabola di Gesù morto e risorto, che arriva al cuore della Legge scritta sulla pietra e ne fa uscire il canto. È come una bocca aperta che invoca, più che gridare. Invoca lo sguardo del samaritano che passa lungo la strada affinché abbia compassione e si fermi, perché tutti gli affaticati e gli oppressi trovino riposo. È una ferita ospitale questa, incisa nella pietra, che accoglie il dubbio di chi gli sta davanti insieme alla consegna di un segreto, di una parola d’amore. Ferita di spada, ma anche feritoia pasquale. La stessa che apparve agli occhi di Tommaso, il quale fu invitato dal Cristo a mettere il dito nella profondità del Mistero. La forza di questa ferita pasquale evoca lo stupore e l’incanto che Caravaggio impresse sulla tela. Ferita che ospita il canto del dubbio e fa sentire ciascuno intorno alla tavola di Dio.

Il marmo bianco dell’altopiano di Asiago custodisce i semi sparsi nel vento mescolati al sangue di tante giovani vite mandate a morire nella grande guerra. La pietra di questo tabernacolo custodisce la memoria dei morti e le tante primavere negate in attesa di resurrezione. E insieme al sangue, alle storie di guerra, c’è l’acqua delle lacrime delle tante donne, spose e madri addolorate.

Questo tabernacolo è aperto, senza serratura, per lasciare libero l’incontro con Dio. È lo stesso pane, ospitante e ospitale, che si lascia prendere e si consegna al viandante, al pellegrino, al peccatore. Chi ha fame venga e mangi. Non si paga questo pane. È un pane che matura nei solchi della gratuità e si dona. “Prendete e mangiate” voi che avete fame di senso, di tenerezza, di giustizia.

Davanti a questo tabernacolo siamo convocati, ospitati. Questa convocazione non si ripiega in una postura intimistica. La ferita parlante ci riconsegna al mondo, ci chiede di continuare il viaggio.

È una pietra in movimento, un corpo in evoluzione. Un invito ad alzarsi in piedi e andare, magari a due a due, come i discepoli di Emmaus verso le periferie del mondo, delle città, per riconoscere nei corpi delle donne e degli uomini, feriti e umiliati, la ferita della pietra: “la pelle di Dio”.

Una pietra che vibra, quella di questo tabernacolo, come corpo vivente.