Le liturgie orientali esperienze di stupore
Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Delegato vescovile per il dialogo interreligioso – Referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani
Il canto, gli arredi, i paramenti e le altre decorazioni liturgiche orientali sono affascinanti anche per occhi occidentali, ma non sempre comprensibili. Così pure le liturgie, che da un lato stupiscono ma dall’altro stancano per la lunghezza e complessità. Addentriamoci allora nell’approfondire alcuni aspetti della spiritualità liturgica orientale, e scopriremo anche alcuni interessanti elementi in comune.
Una delle esperienze più comuni per un cattolico nel suo incontro con i cristiani orientali è lo stupore davanti alla bellezza delle loro liturgie, che tanto nel canto quanto nei paramenti e nell’arredo e decorazione delle chiese sanno toccare le corde profonde della sensibilità umana. Se da un lato non è mai corretto mettere a confronto tradizioni diverse, ciascuna con i propri simboli e varietà di ragioni e fini, dall’altro non possiamo impedirci di trovare estremamente affascinante il mondo delle liturgie orientali, e parte di questo fascino è il loro essere esotiche e poco comprensibili.
Sono gli stessi sapienti dell’Oriente cristiano ad ammettere che solo uno studio specialistico permette di accedere ai significati simbolici dei gesti, delle parole e dell’estetica liturgica, e che molto poco si è fatto finora per promuovere la comprensione di tutto questo da parte degli stessi fedeli orientali. In molte Chiese orientali è ancora in uso una lingua liturgica come il paleo-slavo, il greco liturgico o il copto, lingue che non solo non appartengono più all’uso quotidiano, ma che sono state spesso oggetto di uno sviluppo artificiale guidato da preoccupazioni teologiche ed estetiche. Si pensi che nelle liturgie in paleo-slavo lo stesso ordine delle parole viene alterato per dare risalto alla metrica ed al suono delle sillabe nel canto, accettando che un testo possa divenire quasi incomprensibile e grammaticalmente sbagliato. Questo non per pura esuberanza, ma a servizio di una visione poetica dell’atto liturgico. Come in poesia i concetti non sono l’unico elemento della comunicazione, ma anche il suono ha un suo compito nel plasmare le reazioni emotive di chi recita ed ascolta il testo, così nelle liturgie orientali il fatto di “capire” quanto viene detto non è sempre la prima preoccupazione. Questo è anche in linea con un’enfasi particolare alla dimensione misterica ed apofatica del rapporto con Dio, ovvero quel doversi arrendere all’eccedenza di Dio rispetto alla nostra capacità di comprendere. Possiamo capire qualcosa, certo, ed Egli stesso desidera farsi nostro prossimo e mostrarci tutto quanto di Sé ci è utile per la Salvezza, ma poiché Dio è Dio e noi no, ecco che resta sempre uno scarto incolmabile di incomprensione. Questo spazio viene superato solo dall’atto di fede, ovvero dal consegnarsi con fiducia a quel Qualcuno di cui abbiamo imparato a fidarci anche se non riusciamo a comprenderlo pienamente. Così l’aspetto più incomprensibile delle liturgie orientali è a servizio di un’educazione all’umiltà e alla fiducia nei confronti di Dio. Io stesso, più volte, nel discorrere con fratelli presbiteri delle Chiese d’Oriente, o nel preparare insieme dei momenti di preghiera, mi sono sentito ricordare che “non bisogna preoccuparsi di capire tutto o di dare un senso a tutto”, come anche che i loro fedeli “sono abituati a non capire tutto e questo non li infastidisce”. Ovviamente con il giusto grado di equilibrio, questo approccio può dare molto anche alla Chiesa Cattolica, tanto più che appartiene anche alle tradizioni delle Chiese cattoliche di rito orientale.
Accanto a questa preoccupazione spirituale e teologica, non va però accantonato il valore estetico ed il peso che questo elemento ha nelle liturgie dell’Oriente. Non solo il canto, ma anche gli abiti e gli ambienti sono curati con grande attenzione, seguendo una sensibilità che in parte si discosta da quella predominante oggi in alcune parti del mondo cattolico. Nella Chiesa romana assistiamo da tempo a una forte polarizzazione, a volte dolorosa: ad un angolo del ring troviamo chi vorrebbe spogliare le chiese di ogni decoro, o addirittura abbandonarle per celebrare piuttosto in ambienti “feriali” e laici; sul fronte opposto abbiamo gli alfieri del ritorno al barocco, tanto nelle architetture quanto nelle opere d’arte e nel modo di vestirsi e di parlare, compresa la lingua latina. Mi sento di dire che gli estremi tendono ad essere entrambi sbagliati e pericolosi. In Oriente, sebbene esistano pure lì alcune posizioni in forte contrasto, la grande maggioranza di clero e fedeli resta concorde nel considerare un certo fasto indispensabile alla dignità del culto. Forse anche per questo, almeno nella mia esperienza, i fedeli orientali sono più pronti a mettere mano al portafoglio per acquistare arredi ed altre decorazioni per le proprie chiese: dal loro punto di vista, in fondo, lo splendore dei luoghi di culto deve riflettere la gloria di Dio e per questo ha una forte valenza di consolazione e di speranza. Chi entra in una chiesa orientale, e ancor di più chi partecipa ad una liturgia, se sa come guardarsi intorno trova continui elementi che gli ricordano quando Dio sia grande e potente, e se le sue dimore terrestri possono essere così belle, chissà quale infinito splendore troveremo entrando nella sua vera dimora celeste!
Un altro aspetto che sorprende, non sempre in modo positivo, è la lunghezza delle celebrazioni orientali, la grande abbondanza di feste e di digiuni durante l’anno, ed il cattolico ha talvolta l’impressione di trovarsi davanti ad un vissuto liturgico simile al proprio, ma in qualche modo “gonfiato” fino a proporzioni esorbitanti, anche per quanto riguarda il fasto e la ricchezza del vocabolario, delle vesti e degli oggetti, e infine delle decorazioni pittoriche ed architettoniche. Questa sovrabbondanza, di solito, non ha lo scopo di impressionare. Certo, soprattutto in contesti ufficiali dove interviene anche il potere politico, può accadere che intere chiese siano costruite con sfarzo, al solo scopo di affermare la forza delle istituzioni, tanto laiche quanto ecclesiastiche. Ordinariamente, però, il fine è quello di celebrare con gioia e rendere grazie a Dio per la sua bellezza e gloria, ovvero per ciò che Egli è e non per quello che fa o per i doni che ci offre. È un esercizio di devozione gratuita, che non ha mancato di ispirare una ricca fioritura di testi spirituali che mettono in diretto confronto l’umiltà e l’essenzialità che deve contraddistinguere i credenti nella vita privata ed invece il dovere di celebrare con la massima dignità e bellezza. Conviene qui ricordare come lo stesso San Francesco d’Assisi, il Poverello per eccellenza, insistesse perché la Messa venisse celebrata con un calice d’oro massiccio, tessuti pregiati per l’altare e per gli abiti del sacerdote, libri liturgici impreziositi in ogni modo. Francesco incarnava a proprio modo questa antica sensibilità per coniugare l’umiltà dell’uomo e la gloria di Dio in uno stesso vissuto.
Ovviamente, come in ogni esperienza umana, anche la liturgia orientale è esposta al rischio del peccato, e sono frequenti i richiami dei maestri spirituali a quei vescovi che pretendono onori eccessivi, ed a quanti, chierici o laici, impugnano le parole della liturgia come fossero affermazioni di superiorità nei confronti del prossimo, specie se di diversa appartenenza religiosa.
Dobbiamo poi osservare come la grande ricchezza e complessità delle liturgie orientali sia in gran parte dovuta al fatto di essere pensate da e per i monaci, non per preti e laici che vivono nel mondo. Fino al XII secolo erano ancora in uso, in alcune Chiese, dei rituali appositi per le Cattedrali e le parrocchie, ma dal XIII secolo ad oggi sopravvivono solo i riti monastici. Applicandoli al di fuori dell’ambiente controllato del monastero, risultano talvolta difficili da inserire nella vita frenetica di tutti i giorni. Da un lato questo permette alla liturgia orientale di avere una forte carica critica nei confronti della vita quotidiana, del suo correre che non porta a nulla e del suo essere piena di cose in fondo vuote, e dimentica della priorità di Dio rispetto ad ogni altra necessità. Per contro, da secoli i fedeli orientali hanno imparato a farsi i propri conti, ed a vivere la partecipazione alle liturgie con tanti piccoli accorgimenti, più o meno ufficiali ma sempre tollerati dalle autorità, che rendano in qualche modo sopportabili i riti più gravosi. L’Oriente cristiano non ha forse ancora assunto pienamente consapevolezza di quanto il Concilio Vaticano II ha con forza ricordato all’Occidente, ovvero il dovere di dare all’assemblea liturgica la forma di una comunità tutta coinvolta e partecipe, sia pure rispettando ruoli e storie diverse dei suoi componenti, e quindi anche gradi e modi diversi di parteciparvi.
Potersi avvicinare al modo in cui le altre Chiese vivono la liturgia è sempre un’esperienza arricchente, capace di suscitare domande serie e reazioni interiori a livello cognitivo ed emotivo, ed è anche una sfida a saper ragionare tanto con la testa quanto con il cuore, tenendo insieme i vari aspetti e cercando un equilibrio sempre in evoluzione che ci salvi dal cadere negli opposti estremismi. Anche nel dialogo ecumenico, la liturgia diventa scuola di preghiera e di vita, palestra dove esercitarsi ad essere sempre più umani e sempre più divini, realizzando passo passo in noi il mistero dell’Incarnazione che le nostre Chiese fanno del loro meglio per celebrare.