Mea maxima poenitentia? Vita comunis!

Bello, bellissimo il cammino comunitario delle nostre parrocchie. Attorno alla Mensa del Signore, ogni domenica i credenti ritrovano e costruiscono la comunità. Lo sappiamo e non dobbiamo mai dimenticarci che la Chiesa nasce dall’eucarestia e tutta la liturgia (come ci insegna il Concilio) è fonte e culmine della vita cristiana.

Le preghiere eucaristiche contengono questa rivelazione, chiediamo infatti al Signore che per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo. È una vera e propria epiclesi, un’invocazione alla Spirito che è autore della comunione tra noi.

Dall’eucarestia nasce la vita comunitaria delle nostre parrocchie. La Chiesa davvero è il luogo per eccellenza nel quale sperimentiamo la vita comune. Non una vita comune che nasce dalle medesime affinità, non perché la pensiamo tutti uguale o perché votiamo tutti allo stesso modo. La vita comunitaria nasce dall’unico Spirito che ci rende un corpo solo pur nelle diversità delle sue membra. Lo Spirito del Risorto, come un filo che unisce tutte le perline, suscita la comunione tra noi senza uniformare le nostre vite, ma unendoci nella nostra diversità. La comunione e la sequela di Gesù è sempre l’antidoto ad ogni torre di Babele che spesso vogliamo costruire: un’unica lingua, un unico pensiero, un unico intento cioè quello di raggiungere il cielo con le nostre forze. Lo Spirito per fortuna spariglia queste nostre tentazioni e ci propone sempre il più arduo compito che è quello della vita comune: camminare tutti insieme nelle nostre diversità dietro al Risorto che (Lui e soltanto Lui) ci conduce verso il cielo.

Queste sono le cose che fondano la vita comunitaria della comunità cristiana. Questo dà forza a tutta la nostra azione.

Ma poi…

Ma poi un giorno d’estate con gli adolescenti della mia parrocchia vado a fare visita ad una casa della comunità Papa Giovanni XXIII all’interno della quale si vive un progetto alternativo al carcere. Ascolto le testimonianze dei detenuti, i loro volti sono decisi nel raccontare le loro storie di sofferenze e di delinquenza. Si crea un grande silenzio sul prato verde dell’ azienda agricola nella quale lavorano i ragazzi che devono scontare la loro pena. Ascolto anche io in silenzio e uno di loro ci dice che la comunità é l’involucro dentro il quale ognuno di loro sceglie liberamente di essere una persona nuova, diversa. “La comunità é l’involucro” che bella questa definizione perché tiene insieme la forma della vita comunitaria con l’impegno personale di ciascuno di noi ad essere una nuova creatura. I detenuti ci raccontano come la vita insieme sia al tempo stesso una gioia, ma anche una grande prova. Mi viene in mente la nota espressione vita comune maxi poenitentia. Chissà se i ragazzi carcerati hanno studiato gli aforismi dei monaci antichi o dei padri della Chiesa, fatto sta che trovo nelle loro parole un grandissimo insegnamento per la vita della parrocchia.

Quante volte idealizzo la comunità dimenticandomi che essa é e rimane pur sempre un involucro che se non é riempito dalla nostra volontà di diventare ogni giorno migliori, può rimanere un contenitore vuoto. Alcuni di loro ci parlano di chi non ce l’ha fatta, di quanti hanno preferito tornare in carcere piuttosto che vivere le esigenze della vita comunitaria. Quante volte ci dimentichiamo che la vita comune é davvero un impegno grandissimo, é davvero una poenitentia! Perché l’altro, il fratello é diverso da me, perché l’altro mostra sempre i propri limiti, i propri difetti, le proprie incoerenze e fragilità e ogni volta in tutto ciò io vedo me stesso.

Penso a come la vita comunitaria davvero rappresenta la strada per diventare creature nuove. Il recupero dalle dipendenze, i percorsi di reinserimento nella società, il superamento delle disabilità, il discernimento vocazionale, l’educazione scolastica: ogni volta che l’uomo si deve costruire o ricostruire, l’involucro comunitario é sempre la forma proposta, é sempre il “metodo” giusto a cui dare contenuto. Questo vale anche per le nostre parrocchie, guai scavalcare la poenitentia della vita comune presumendo di poterne fare a meno.

Forse tante volte la vita comunitaria ci é stata presentata in modo un po’ idilliaco, spiritualistico e non spirituale. Forse per tanti anni ci siamo immaginati la parrocchia ideale e la comunità ideale attendendoci (non si sa per quale motivo) che la parrocchia potesse essere esente dalle stesse dinamiche di ogni vita comunitaria. Non dimentichiamoci mai l’aspetto penitenziale della vita comunitaria, non dimentichiamoci mai che lo sfregarci gli uni contro gli altri fa sì che si generi lo spazio per vivere insieme. Non dimentichiamoci che ricevere una regola non può sempre donarci gioia, che le regole della vita comunitaria a volte bruciano perché ci chiedono di morire a noi stessi per ricevere una vita nuova.

I detenuti della comunità mi hanno poi insegnato che la vita comunitaria è il luogo nel quale raccontarsi e ascoltare gli altri. Anche questo è un grande insegnamento per la parrocchia. Se siamo ascoltatori della Parola di Dio, dobbiamo crescere anche nell’ascolto della parola degli altri. La comunità cristiana sia anche il luogo dove ognuno di noi ha la possibilità di essere ascoltato, di raccontarsi senza giudizio o pre-giudizio. Tra i detenuti non c’è pregiudizio perché tutti sono consapevoli da dove arriva il proprio compagno di vita comunitaria. Così in fondo dovrebbe essere la vita delle nostre parrocchie. Dobbiamo essere tutti consapevoli che il fratello è un peccatore con i suoi limiti e le sue incoerenze esattamente…come me! Che bella la vita comunitaria quando diviene luogo di ascolto!

Un ultimo insegnamento che mi hanno lasciato i ragazzi della Papa Giovanni è quello di imparare a gestire i conflitti. Spesso diciamo che la comunità è luogo di perdono e come è vero questo! Ma per essere un luogo di perdono innanzi tutto la vita comunitaria deve insegnarci a gestire i conflitti.

C’è una raccomandazione accorata che Paolo scrive nella sua lettera ai Galati: voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest’unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e divorate gli uni gli altri, guardate di non essere consumati gli uni dagli altri (Gal 5,13-15).

È proprio vero: mentre cerchiamo di vivere l’amore verso i nostri fratelli, spesso ci mordiamo gli uni gli altri, incapaci di gestire gli inevitabili conflitti che la vera vita comunitaria genera. Conflitti caratteriali, conflitti dovuti alle nostre storie diverse, alla visione diversa che spesso abbiamo sulle cose e sulle persone. Come è importante che ciò avvenga nelle nostre comunità, come è importante sentire “l’odore dei nostri fratelli” e imparare a gestire i conflitti senza sbranarci tra di noi. La vita comune sarà anche una grande penitenza, ma è certamente una via per imparare ad accogliere gli altri cercando di “sconfiggere” il nostro più grande nemico: noi stessi. La vita comune è la migliore medicina che ognuno di noi può assumere per guarire dal proprio egoismo, dalla rabbia e perché no, anche dalla violenza che spesso si manifesta nei modi più vari e anche sofisticati.

Mentre salutiamo i nostri amici detenuti risuonano dentro di me le parole che ho ascoltato. Ringrazio davvero il Signore per tutte le fatiche che spesso mi fa fare nella vita comunitaria della mia parrocchia. Lo ringrazio perché so che solo attraverso il vaglio della vita comunitaria riuscirò ad esser una creatura nuova ed essere un giorno, perché no, un uomo libero.