Missione e dialogo


Don Gianluca Padovan – Sacerdote della diocesi di Vicenza – Vice delegato vescovile per il dialogo interreligioso – referente per il Triveneto del dialogo con i mussulmani


Una delle reazioni forti alle scelte del Concilio Vaticano II venne dai vescovi missionari, preoccupati che dopo la scelta decisa del dialogo inter-cristiano ed inter-religioso non ci fosse più alcun motivo per dedicare la propria vita all’attività missionaria. Abbiamo il dovere di prendere sul serio quella preoccupazione, anche se ormai è passato molto tempo e sappiamo come la Chiesa continui ad annunciare il Vangelo senza sosta. Al tempo del Concilio, però, si veniva da una tradizione lunga e problematica circa l’attività missionaria (forse radicata in una certa interpretazione colonialista del Concilio di Trento). Camminando assieme alle società e ai governi dell’Europa, la Chiesa Cattolica aveva assimilato l’idea di partire dai paesi cristiani per andare nel mondo ad “impiantare la Chiesa”, ovvero costruire parrocchie e diocesi, formare una gerarchia locale di preti e vescovi, fino a realizzare un’istituzione ecclesiale in tutto uguale a quella già presente nel Vecchio Mondo. Questo rispondeva alla convinzione di aver già realizzato il massimo ideale allora possibile di Chiesa e di società cristiana, che andava quindi esportato ed insegnato agli altri popoli, cui spettava il dovere di assimilarlo e metterlo in pratica. 

Questa visione, però, non è compatibile con lo sguardo del Vaticano II alla dignità della persona umana ed alla libertà inviolabile della coscienza. Il Concilio richiama continuamente alla necessità di incontrare ogni persona con un pregiudizio positivo di stima verso di lei, con attenzione per la sua storia particolare e rispetto per l’identità che essa ha già maturato fino a quel momento. La Chiesa, e quindi ogni cattolico, è dunque chiamato non ad essere maestro, ma compagno di strada, con-discepolo che invita gli altri uomini e donne all’unica scuola del Vangelo, di cui egli per primo è alunno. La Chiesa, in poche parole, si è riscoperta a servizio del mondo, ed il primo atto di servizio è quello di condividere quanto fino ad ora abbiamo scoperto seguendo Cristo, unico Maestro.

Nel mondo di oggi, a ben guardare, la missione come fu intesa per secoli non è più necessaria: ormai non c’è paese al mondo in cui non esista già una comunità cristiana, e persino specificamente cattolica, anche se spesso piccola e fragile. La missione, oggi, non può più prevedere l’edificazione della Chiesa come se ancora ci si recasse presso popolazioni del tutto ignare. Anche solo attraverso le televisioni ed internet, anche nei villaggi dei deserti delle foreste tropicali sono già arrivate immagini e parole che trasmettono una qualche idea della Chiesa e della sua fede. La missione, oggi, si confronta anzitutto con questi pregiudizi, che possono essere più o meno corretti, e di cui bisogna tenere conto per dialogare davvero ed incontrarsi onestamente.

Ciò significa che noi cattolici dobbiamo ancora essere missionari, ma non possiamo più esserlo come prima. La missione è in trasformazione, si sta convertendo come tutti gli altri aspetti della vita ecclesiale dopo il Concilio. Ed il cammino, probabilmente, sarà ancora lungo.

In questa conversione della missione possiamo notare due aspetti, che vanno tenuti assieme e che dicono qualcosa di molto concreto alla nostra vita quotidiana.

Anzitutto, il fatto di ribadire il dovere missionario di ogni cattolico significa ricordare a ciascuno di noi il mandato fondamentale che leggiamo alla fine del Vangelo di Matteo: “Andate dunque, e fate discepoli tutti i popoli”. Con queste parole Gesù si congeda dagli Apostoli al momento dell’Ascensione, ed essi fin dal principio trasmisero tale compito assieme agli altri insegnamenti, così che ogni battezzato è partecipe dell’impegno all’evangelizzazione. Vorrei fermarmi proprio su questa parola: evangelizzazione. Significa “mettere a contatto con il Vangelo”. Insegnare, anche, ma non solo. Oggi la missione è primariamente evangelizzazione, e quindi ci chiede di diventare “portatori di Vangelo”. Se facciamo nostra questa nuova prospettiva, molti problemi si risolvono quasi da soli. Se siamo portatori di Vangelo, allora è evidente come il nostro compito missionario preveda il dialogo, in tutte le sue forme. Davanti agli altri cristiani, ai credenti di altre religioni ed ai non credenti, siamo sempre e solo uomini e donne che portano il Vangelo. Noi ci impegniamo a viverlo, a tradurlo in scelte operative e concrete, e poiché vediamo che questo rende la nostra vita buona e feconda, lo proponiamo alle persone disposte a condividere con noi le loro esperienze.

Una missione di evangelizzazione può anche prevedere la costruzione di una chiesa e di altri edifici, la costituzione di diocesi e parrocchie, la fondazione di ordini religiosi locali e quant’altro, ma anche no. Figure come quella di Charles de Foucauld, per esempio, ci raccontano di un’evangelizzazione povera di mezzi, fatta di giornate di lavoro e di preghiera, di colloqui a quattr’occhi, di amicizie personali che non fanno rumore. Il beato Charles non fondò chiese, non battezzò folle, non convertì nazioni. Eppure, abitando come monaco in mezzo ad una popolazione di fede musulmana, diede testimonianza al Vangelo con la preghiera assidua, l’assistenza ai poveri, la condivisione delle fatiche e dei pericoli nei villaggi algerini alla fine del 1800. Anche la sua morte, ucciso dai predoni mentre difendeva alcuni civili, avvenne nella semplicità di una tragedia violenta che allora colpiva indiscriminatamente uomini e donne di ogni età e religione, nei tumulti delle guerre civili.

Egli tentò di fondare un ordine religione, ma non vi riuscì. Dopo la sua morte, certo, divenne il riferimento per comunità di frati e di suore, ma nella sua missione non ci fu tempo né occasione per questo tipo di impresa ecclesiale.

Charles de Foucauld è solo uno dei molti esempi che la Chiesa ci ha dato negli ultimi duecento anni, di uomini e donne che hanno contribuito a preparare le scelte decisive del Concilio e che ci hanno fornito le prime testimonianze e riflessioni su come, oggi, l’annuncio del Vangelo debba essere un tutt’uno con il dialogo e l’amicizia fraterna con ogni persona che Dio mette sulla nostra strada.

Dialogo e missione, quindi, non sono altro che due aspetti dello stesso impegno all’evangelizzazione, che ci riguarda tutti e comincia addirittura dentro noi stessi. Il nostro cuore, infatti, è la prima frontiera dell’evangelizzazione, la prima terra che dobbiamo conquistare al Verbo incarnato attraverso le parole del suo Vangelo. Annunciando il Vangelo a noi stessi, constatando le nostre resistenze, le fatiche, i fallimenti, accanto ai successi ed agli altri motivi di gioia, impariamo a guardare con pazienza e indulgenza verso il nostro prossimo. Cominciamo poi dalle nostre case, dai nostri familiari. A loro dobbiamo il nostro primo impegno di evangelizzazione, perché la vita della nostra famiglia sia sempre più guidata dallo stile evangelico dell’amore per Dio e per il prossimo. Esercitandoci nell’annunciare il Vangelo ai familiari ed agli amici, alle persone che conosciamo meglio, che amiamo e da cui siamo amati, ci facciamo i muscoli per l’annuncio alle genti.

Abbiamo davvero bisogno di questa palestra quotidiana di umanità, per non cadere negli opposti estremismi di chi si accontenta di coltivare la propria fede privata e non cerca più di annunciare, o di chi al contrario diventa addirittura aggressivo nel suo insistere a voler convertire l’altro a tutti i costi. Credo sia invece prezioso fare nostro l’atteggiamento che già nel 1984 l’allora Segretariato per i non cristiani raccomandava alla fine di un documento intitolato proprio “Dialogo e missione”:

«Dio solo conosce i tempi, Lui a cui niente è impossibile, Lui il cui misterioso e silenzioso Spirito apre alle persone e ai popoli le vie del dialogo per superare le differenze razziali, sociali e religiose e arricchirsi reciprocamente. Ecco dunque il tempo della pazienza di Dio nel quale opera la Chiesa ed ogni comunità cristiana perché nessuno può obbligare Dio ad agire più in fretta di quanto ha scelto di fare.
Ma davanti alla nuova umanità del terzo millennio, possa la Chiesa irradiare un cristianesimo aperto per attendere nella pazienza che spunti il seme gettato nelle lacrime e nella fiducia».

Lacrime e fiducia sono i segni della nostra passione per Cristo, del nostro amore per Dio e per l’umanità, della nostra fede nella parola buona del Vangelo che sa trovare la strada dei cuori umani.

Noi siamo chiamati oggi ad una missione che è testimonianza di vita evangelica, disponibilità all’incontro e al dialogo con chi a sua volta è disponibile, senza forzare nessuno ma al contempo senza temere di proporre ed invitare a sedersi insieme per condividere le reciproche esperienze. In fondo, a ben guardare, possiamo dirci davvero benedetti, perché dopo molti secoli siamo di nuovo nella condizione degli apostoli, e anche noi possiamo rivolgere al nostro prossimo quello stesso invito di Gesù: “vieni e vedi”! Perché noi siamo il Vangelo vivente che il Padre offre al mondo, e venendo a colloquio con ogni persona collaboriamo alla salvezza dell’intera Creazione